Ragazzi, cambiate il Mondo!

Cambiare il Mondo si può?

Il Mahatma Gandhi, tanto tempo fa, ha detto: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.

E lui la sapeva lunga su come cambiare il mondo, visto che è riuscito a liberare la sua India dagli inglesi senza armi né eserciti.

Ma perché mai voi giovani dovreste cambiare il mondo?

Beh, perché magari non vi piace così com’è e in fondo dovrete viverci a lungo.
Meglio essere attivi, quindi, che stare a guardare o ad aspettare che qualcosa cambi. In fondo avete l’energia per farlo.

“Eh, già, come posso cambiare il mondo” dirà qualcuno “sono solo un ragazzino!”.

Vero, ma il tuo mondo qual è?
Prova a pensarci un attimo.
Non è forse la scuola, gli amici e la famiglia? Ok, mettiamoci anche lo sport, la musica…

Allora, prova a riflettere: che cosa vorresti cambiare di questo tuo mondo?

Devi concentrarti sui tuoi bisogni, sulle cose che per te hanno un gran valore, perché ciascuno ha bisogni diversi.

Ad esempio, c’è chi ha bisogno di essere ascoltato senza essere giudicato, chi vuole essere bene accolto nel gruppo classe…

Per tutti c’è poi un ordine di importanza.
I bisogni sono tanti, è vero, ma poi devi metterli in ordine, da quello che per te è più importante fino a quello meno.

La maggior parte dei ragazzi che ho ascoltato ha messo al primo posto “essere rispettato”, cioè “non preso in giro, accettato per come sono, accolto e ben voluto”.

Tutti bisogni che portano a “vivere sereno”.

Bene, ragazzi, sapete che vi dico?

Che se questi sono anche i vostri bisogni, dovete AGIRE per ottenerli.
Non potete aspettare che se ne occupino gli altri al posto vostro.
Dovete lottare!

Come?

Prima di tutto pensate: “Cosa posso fare IO per rispettare, accettare gli altri?” e poi mettete in pratica la risposta che trovate.

Ad esempio, “smetto di ridere alle spalle di chi già viene preso in giro dagli altri” oppure “smetto di rispondere male ai miei familiari”.

Fate come dice Gandhi: cambiate per primi voi e il mondo cambierà di conseguenza.

 

 

*Articolo scritto da Laura Gazzola e pubblicato sulla Pagina dei Ragazzi del quotidiano “La Provincia di Como” nel febbraio 2018.

Vuoi comunicare il tuo disagio? Costruisci la frase perfetta!

Se chi si relaziona con noi è puntuale, attento e disponibile… tutto va bene: i nostri bisogni vengono ascoltati senza neanche esprimerli.
In questo caso è facile comunicare con l’altro, perché c’è perfetta armonia.

Ma cosa succede se chi deve collaborare con noi non ci ascolta?

Sicuramente ci sentiamo incompresi, arrabbiati, e viviamo un penoso malessere.
Sbraitare non serve a nulla, anzi! A volte fa più danno! E allora…

Come comunicare in modo positivo il nostro disappunto o disagio?

Come riuscire a stare calmi e a non rimuginarci sopra per il resto della giornata?
Come essere soddisfatti per aver fatto presente ciò che ci ha irritati?

Un modo pratico ed efficace c’è!

Mettiamo da parte l’impulsività e impariamo a “costruire” la frase da comunicare, mettendo insieme queste tre parti:

  • Quando tu fai così… (spiegare ciò che ci ha dato fastidio)
  • Io mi sento… (esprimere l’emozione provata)
  • Perché… (spiegare il motivo, la causa per cui ci siamo irritati)

Facciamo degli esempi:

La cena è pronta e l’avete appena servita in tavola. Chiamate vostro figlio, che è in stanza, e lui arriva con 10/15 minuti di ritardo. Al posto di fargli la solita ramanzina, siate molto fermi e brevi:

  • Quando tu arrivi in ritardo, dopo che ti ho chiamato più volte
  • io mi innervosisco
  • perché il cibo si fredda e soprattutto non mangiamo insieme nell’unico pasto che possiamo condividere.

Oppure:

La stanza di vostro figlio è terribilmente in disordine: vestiti sul letto, sulla sedia e per terra, zaino rovesciato e buttato in un angolo, libri e quaderni ovunque, scarpe spaiate in giro per la camera. Gli chiedete di riordinarla prima di sera, ma quando è l’ora di cena, vi accorgete che lui non l’ha fatto.

Al posto di iniettare i vostri occhi di sangue e attaccarlo con le peggiori frasi… respirate e limitatevi a:

  • Quando tu non riordini la tua stanza, dopo che te l’ho chiesto
  • io mi infurio e mi deprimo
  • perché mi fai sentire come una cameriera e per me è una mancanza di rispetto.

E se le scuse di vostro figlio vi sembrano poco sincere o credibili, aggiungete:

  • Quando mi rispondi così
  • mi innervosisco ancora di più
  • perché per me la sincerità è importante.

Ecco! Se strutturerete la frase in questo modo,

potrete spiegare con poche parole il vostro disagio e le vostre emozioni in modo che vengano comprese.

Non dico che sarà semplice, ma è una valida alternativa ai lunghi e inutili discorsi che poi nessuno ascolta, sia che si tratti di un figlio sia che si tratti di un collega, del partner, ecc.

Provateci e fatemi sapere!

Sei sicuro di non essere “dipendente” dallo smartphone? Meglio verificare!

Chi di voi non ha un cellulare, alzi la mano!
E di sicuro lo usate per chattare, guardare video, ascoltare musica, giocare…

Ma per quanto tempo al giorno?

Alcuni dodicenni di una scuola di Brescia hanno condotto una ricerca sull’uso dello smartphone e poi hanno realizzato un volantino con una serie di indicazioni utili a non ammalarsi.

Già, perché di cellulare ci si può ammalare e anche gravemente.

Pensate che i pediatri italiani vorrebbero vietare l’uso del cellulare ai bambini al di sotto dei 10 anni. Hanno spiegato, infatti, che

iniziare ad usare da piccoli il cellulare e farlo per un’ora intera al giorno, può portare a perdere concentrazione e memoria, a dormire poco e male, ad essere più aggressivi con gli altri e… ad apprendere di meno.

Ci sono poi ragazzi che, se non sono costantemente connessi, vengono assaliti da una paura incontrollata che li fa stare male.

Ecco, è una vera e propria “dipendenza”, ma loro non se ne rendono conto, finché… il loro corpo inizia a mandare dei segnali.

Sono sintomi di questa “malattia”, che si chiama “nomofobia”, e che si manifesta quando non si può usare lo smartphone per un certo periodo di tempo, perché non c’è il segnale o la batteria è scarica o è finito il credito.

Queste persone, ragazzi e adulti, allora iniziano a sentire il cuore accelerato, ad avere il fiato corto, a sentire nausea.
E’ una vera e propria ansia che li assale, fino a trasformarsi in attacco di panico.

Allora come possiamo fare per non cadere in questa trappola?

Usare il cellulare con intelligenza, cioè non portarcelo dappertutto: spegnerlo quando siamo a tavola con la famiglia e non usarlo quando siamo fuori con amici o a scuola o agli allenamenti.

Possiamo averlo con noi, ma capire quando è il caso di usarlo e quando no.

Se stiamo studiando o dobbiamo dormire, meglio spegnerlo; se vogliamo giocare, fermiamoci dopo mezz’ora.

Se non siete sicuri di riuscire a farlo, vuol dire che non siete “pronti” ad avere un cellulare. Pensateci!

 

 

*Articolo scritto da Laura Gazzola e pubblicato sulla Pagina dei Ragazzi del quotidiano “La Provincia di Como”  nel febbraio 2018.

“Le voglio bene, ma mi fa stare male!”… Come ne esco?

Durante una sessione di Life Coaching, una giovane donna – che mi sta raccontando di un’amica a lei cara – all’improvviso si ferma e con aria triste dice: “Le voglio bene, ma mi fa stare male!”.

Chissà a quanti di noi è capitato di pensare la stessa cosa nei confronti di un’amica, di un familiare, del partner.

Provare affetto per chi ci fa sentire scontate… come fossimo un accessorio, una seconda scelta.

Domandarci tutte le volte: “Chissà!, magari non ha fatto apposta a cancellare quel nostro impegno!” o “Ma perché non mi ha invitato?” o “Possibile che cambi sempre il programma che abbiamo fatto?”.

Non è questione di confidenza o legame di parentela. E’ che vogliamo bene a chi pensa sempre prima a sé e poi – molto poi – a noi.

Il fatto è che , quando ne diventiamo consapevoli, siamo di fronte a un dilemma: andare avanti così o prendere le distanze?

Rammento una persona a cui ero molto legata che faceva tutto a suo piacimento ed io dovevo sempre adattarmi. Volendole molto bene, la assecondavo, anzi, giustificavo il suo comportamento scorretto pensando che non facesse apposta! Era così! Era il suo carattere.

Però nel frattempo soffrivo…

Mi faceva stare male quando lei cancellava gli impegni che aveva preso con me; quando lei si organizzava a suo piacimento ed ero io a dovermi adeguare; quando lei mi rispondeva in modo sgarbato e io stavo zitta per evitare lo scontro.

La verità è che avevo paura di perderla, perché avevamo condiviso tanto in gioventù.

Com’è finita?

Dopo parecchi anni ho deciso di tagliare: uscire con lei e tornare a casa con qualche ferita era all’ordine del giorno e proprio non lo sopportavo più.

Non eravamo più due ragazzine e crescere significa ascoltarsi, guardarsi dentro e scegliere per il proprio bene.

Non è stato facile: pensavo che quel legame non si sarebbe mai spezzato…

Credevo che ci volessimo bene.

Ma l’affetto dev’essere reciproco e deve esprimersi sotto forma di rispetto, di comprensione, di disponibilità verso l’altra persona.

Quando una dà e l’altra prende e basta… è il momento di mettere in dubbio l’affetto dell’altra.

Se stiamo male, vuol dire che non siamo felici e che quella persona probabilmente non è poi così positiva per noi.

Perciò, se come la mia cliente vi ritrovate in una situazione simile, provate a rispondere a queste semplici domande:

  • Quanto ancora siete disposti a soffrire?
  • Mettendo sulla bilancia l’affetto che provate e quanto l’altra persona vi fa stare male, che cosa pesa di più?
  • Vi sta bene soffrire per colpa di un’altra persona?
  • Da zero a dieci, quanto vi fa soffrire? E quanto vi sentite ricambiati nell’affetto?

Se a tutte queste domande avete risposto in modo sincero, la verità può essere:

  • Che non avete altre persone con cui sostituire chi vi fa soffrire, per cui non siete disposti a prendere le distanze. Oppure,
  • che sia arrivato il momento di svoltare.

E quando dico “svoltare” non significa per forza “tagliare”.

Basterebbe che iniziaste a dire ciò che pensate, senza paura né dubbi.

Immaginate di trovarvi di fronte all’ennesimo cambiamento di programma da parte sua e di farglielo notare, con calma, ma in modo deciso e fermo: “Scusa, ma a me non sta bene, per questo e quest’altro motivo”.

Qualcuno penserà: “Eh, ma così per forza ci si scontra!”.

Non è detto! Anzi!

Se l’altra persona vi considera importanti e vi vuole bene quanto voi gliene volete, sarà disposta a venirvi incontro. Se invece si impunterà, farà muro contro muro… Be’ avrete la prova che cercate!

Scopri perché non riesci a raggiungere i tuoi obiettivi!

Quante volte ci lamentiamo di non riuscire ad avere ciò che vogliamo?

Sì, lo desideriamo, ma poi “ci perdiamo” oppure non sentiamo più la spinta necessaria a ottenerlo.

E guardiamo chi invece ce la fa, sentendoci “dei perdenti” (si trattasse anche semplicemente di seguire una dieta dimagrante).

Ma perché c’è chi ce la fa e noi no?

Ammesso che il nostro desiderio sia concreto, ciò che fa la differenza viene prima del “mettersi in cammino” e consiste nel definire chiaramente lo scopo per cui vogliamo fare quella determinata cosa.

Facciamo un esempio: prima di iscriverci in palestra, dobbiamo chiarire con noi stessi il motivo per cui vogliamo fare attività fisica.

Per dimagrire? Per tonificare? Per scaricare le tensioni? Per svagarci?

Domandarci, quindi: “Ma io so che cosa voglio?”.

Questo vale in tutti i settori della nostra vita.

Oltre a questo dobbiamo provare il grande desiderio di arrivare al risultato che vogliamo.

Senza il desiderio, infatti, non arriveremo da nessuna parte, perciò domandiamoci:

“Da 0 a 10, quanto desidero realizzare quel mio desiderio?”.

E se la risposta è “5”, significa che quell’obiettivo non è poi così importante per noi.

Al contrario, più ci avviciniamo al 10 e più vorrà dire che siamo convinti di volerlo raggiungere.

E’ fondamentale comprendere questa cosa, perché i desideri, i sogni, gli obiettivi sono una bella cosa e possono regalarci euforia e gioia nel momento in cui li formuliamo, ma ricordiamoci che, per non restare soltanto tali, devono essere trasformati in azioni concrete.

Perciò, se abbiamo tutto chiaro… Diamoci da fare!

Impariamo ad accettare i complimenti!

Una mia caratteristica è quella di essere molto attenta alle persone che mi circondano, siano esse amiche o semplici conoscenti.
Mi soffermo sulle espressioni del loro viso, noto se calano o aumentano di peso, se hanno un nuovo taglio di capelli, se cercano angoli di solitudine…
Insomma, qualche adolescente – in modo scherzoso e affettuoso – dice che “non mi scappa niente”.

Fatto sta che settimana scorsa mi è capitato, entrando in classe, di notare immediatamente che uno dei miei studenti avesse cambiato il suo taglio di capelli.

Me ne sono accorta anche se era in fondo alla classe e davanti a lui, in piedi, c’era una compagna molto alta.
Non ho perso tempo ed essendo molto spontanea, gli ho fatto giungere il mio apprezzamento con un sonoro: “Woww! Hai tagliato i capelli! Stai proprio bene!”.

Momento di silenzio: tutti si sono girati a guardarlo, come non si fossero accorti, nonostante fossero in classe da due ore.

Lui, che cercava di nascondere l’imbarazzo, si è affrettato a replicare: “Ma no… Li ho appena spuntati sui lati!”.

Signori, vi garantisco che il taglio era completamente diverso: capelli cortissimi e ciuffo ingellato all’indietro!

Perché vi racconto questo fatto?

Perché anche noi adulti siamo soliti minimizzare, quando ci viene rivolto un complimento: al posto di riceverlo, di apprezzarlo e ringraziare, cerchiamo di toglierci subito dall’impaccio, come fosse qualcosa di negativo da cui scappare.

Ci avete mai fatto caso?

E’ un po’ come dire: “Meglio le scarpate in faccia!”.

Che cosa ci impedisce di rispondere un sincero “Grazie!”, accompagnandolo magari con un bel sorriso spontaneo?

Secondo voi, chi vi ha mosso quel complimento, preferirebbe ricevere una risposta evasiva o un bel “grazie”, ovvero la conferma che avete gradito il suo apprezzamento?

Sono certa che sia il “grazie” ciò che vorrebbe ascoltare!

Se una sola parola ci sembra poco, per uscire dall’improvviso imbarazzo, potremmo aggiungere: “Grazie! Sei molto gentile!” o “Grazie! Mi fa piacere!” o ancora “Grazie! Wow! La mia autostima è cresciuta con questo tuo complimento!”.
Insomma, a seconda del vostro carattere, potete scegliere che cosa aggiungere…
Ma non minimizzate!

Godetevi quel momento…
Sono così pochi i complimenti e così tante le critiche distruttive!

La nostra autostima si nutre anche di commenti positivi, che magari sono conferme per noi.

Pensate a quello studente che certamente ha voluto cambiare quel taglio di capelli per apparire più carino, più cool…
Rendersi conto che qualcuno – all’infuori dei familiari – abbia apprezzato, gli dà la conferma di aver scelto bene (imbarazzo a parte!).

Perciò… sforziamoci di “accogliere” i complimenti: gioiamo nel riceverli e facciamone tesoro.

Magari, come già stanno facendo i miei studenti,

trascriviamoli su un nostro quaderno: così resteranno per sempre e ci aiuteranno a superare quei momenti in cui – di noi – vedremo solo gli aspetti negativi.

 

Ragazzi, allenatevi al… rispetto!

Sapete che cos’è il “coaching”?

E’ un metodo per ragazzi e adulti  che vogliono migliorare se stessi, superando ostacoli e sviluppando tutti i loro punti di forza.
Il termine significa “allenamento” e infatti, per raggiungere un obiettivo, dobbiamo allenarci, esattamente come si fa nello sport.

Può essere un obiettivo sportivo, professionale, scolastico o… personale, come nel caso di migliorare il nostro rapporto con gli altri.

E come fare?

Il discorso è lungo, ma partiamo da un concetto semplice:

per stare bene con le altre persone dobbiamo cominciare a pensare a loro in un’ottica di “rispetto”, a partire da piccoli gesti legati alla nostra quotidianità.

Facciamo un esempio:
se viviamo in appartamento e ci sono persone che abitano sotto di noi, eviteremo di ascoltare la musica o la tv a tutto volume, così come di giocare a far rimbalzare la pallina da tennis sul pavimento.
Il motivo è ovvio: daremmo fastidio e quindi potrebbero risentirsi e noi rischiare di incrinare il rapporto con loro.

Non è difficile, basta allenare la nostra sensibilità verso gli altri e cominciare a pensare seriamente che i loro diritti (al riposo, alla tranquillità ecc.) sono uguali ai nostri.

Potremmo iniziare col domandarci: “Ma se loro disturbassero me come io faccio con loro, come reagirei?”.

Immaginate di essere sui libri in vista di una verifica importante e di non riuscire a concentrarvi per il fastidio provocato dai vostri vicini.
Correreste il rischio di prendere un brutto voto, vero? Che seccatura!

Quindi, “alleniamoci” a essere più rispettosi, così:

1) scriviamo una lista di azioni che – se fossimo noi a subire – ci darebbero molto fastidio.

2) Prendiamo la prima voce in elenco (es. tenere il volume della musica basso, ovvero – in una scala da 0 a 10 – potrebbe essere a 3) e stabiliamo che per un mese ci concentreremo su questo.

3) Il mese successivo “rispetteremo” il 2° punto della lista e così via.

Alla fine in qualcosa avremo migliorato e gli altri ce ne saranno grati.

*Articolo scritto da Laura Gazzola e pubblicato nella Pagina dei Ragazzi del quotidiano “La Provincia di Como” il 20 novembre 2018.

Ragazzi, se volete essere felici… imparate a usare l’umorismo!

La sfida per un giorno di questa settimana porta il nome di “umorismo”.

Vediamo se ne siete dotati!

Rispondete “sì o no” a queste domande:
1) Quando un amico ha un umore nero, faccio di tutto per distrarlo con battute;
2) Mi piace portare allegria nella giornata degli altri con un sorriso;
3) Molte persone dicono che con me si divertono;
4) In certe situazioni trovo qualcosa per cui ridere con gli altri;
5) Riesco a ridere dei miei difetti.

Più “sì” avete risposto e più il vostro grado di umorismo è alto.

Ma che diavolo è l’umorismo?!

E’ la capacità di sorridere (persino ridere) con gli altri e di far sorridere gli altri della vita, di ciò che succede in essa.

Se avete il dono dell’umorismo, siete davvero fortunati!
E certamente è ancora più fortunato chi vi sta accanto, perché voi riuscirete a mostrargli il lato più divertente e comico di ogni evento.

Non significa che continuate a ridere come sciocchi per qualsiasi cosa, ma che riuscite a cogliere il lato buffo della vita.

Se, ad esempio, sapete ridere dei vostri difetti, scherzandoci sopra, prendendoli con leggerezza e non come un peso enorme, siete dotati di umorismo e gli altri vi apprezzeranno per questo.

Chi sceglie di prendere in giro se stesso e non gli altri, è tutt’altro che superficiale, anzi!
E’ sicuramente una persona riflessiva e profonda, con splendide qualità!

Quindi allenate l’umorismo ogni giorno, perché è un modo efficace di combattere lo stress delle verifiche e delle interrogazioni.

E come facciamo a coltivarlo?

All’inizio vi ho parlato di una… sfida.

Si tratta di scegliere un giorno e – sin dal mattino appena svegli – cercare di affrontare tutto ciò che vi sembra pesante con una battuta.

In mensa il piatto del giorno è disgustoso per voi? Fate una battuta e rideteci sopra.
Servirà a non arrabbiarvi e vi permetterà di “passarci sopra”.

Ricordate che l’umorismo è un’arma di difesa potentissima! Perciò… usatela!

 

*Articolo scritto da Laura Gazzola e pubblicato sulla Pagina dei Ragazzi del quotidiano “La Provincia di Como” il 6 novembre 2018.

Ragazzi, ecco cinque mosse per imparare a… perdonare!

La parola d’ordine di questa settimana è “perdonare” e sappiamo quanto sia difficile, soprattutto se ci siamo sentiti traditi o feriti.

Il fatto è che molte volte vorremmo perdonare, ma come fare per zittire quella vocina che abbiamo dentro e che ci suggerisce di vendicarci o di odiare chi ci ha fatto male?

Non siamo mica dei santi! Loro sì che sono capaci di perdonare e di vivere sereni!

Ma… se volete “imparare” a perdonare, esiste un metodo, che non funziona velocemente come uno schiocco di dita, ma che vi può portare a vivere meglio, con più ottimismo e felicità.

Non ci credete?

Provate a seguire questi 5 passi:

1) Ricordate ciò che vi è successo, senza pensare che il colpevole sia un “mostro”.

Non arrabbiatevi di nuovo: respirate lentamente e profondamente.
Poi provate a rivedere la scena nella vostra mente: fate una descrizione “oggettiva”, senza aggiungere altro.

2) Provate a mettervi nei panni di chi vi ha fatto soffrire: immaginate di avere di fronte quella persona, mentre vi spiega perché si è comportata così male.

Quale storia vi racconterebbe?
Inventatela!

3) Ora il passo più difficile: “regalate” il vostro perdono.

Per riuscirci, pensate a qualcosa che avete combinato tempo fa e al perdono che avete ricevuto.
Smettetela di provare odio e ostilità: mettetevi al di sopra del male e della vendetta. Solo così potrete perdonare davvero.

4) E’ il momento di scrivere una lettera di perdono a chi vi ha fatto soffrire.

Mettere su carta il perdono aiuta a renderlo vero.
Se proprio non ce la fate a mandare una lettera, scrivetela sul vostro diario e conservatela.
Sarà sufficiente.

5) Sarà impossibile “cancellare” dalla vostra mente ciò che è accaduto, ma “ricordarlo” non significa “non riuscire a perdonare”. Ricorderete ciò che è successo, ma non proverete più il desiderio di vendetta, la rabbia, il dolore.

Rileggete la lettera che avete scritto: vi aiuterà a tornare sereni.

E ricordate che “perdonare” non è un atto di debolezza, ma un modo per vivere sereni!

 

* Articolo scritto da Laura Gazzola e pubblicato sulla Pagina dei Ragazzi del quotidiano “La Provincia di Como” il 9 ottobre 2018.

Niente sensi di colpa se decidi di abbandonare a metà un libro!

Vi sarà certamente capitato da adulti di leggere un romanzo che non è stato all’altezza delle vostre aspettative!
E quanta fatica per terminarlo, vero?

Già, perché solo l’idea di lasciarlo a metà… beh, ci avrebbe fatti sentire in colpa!
Si sa che è una cosa da non fare!

Ce l’hanno inculcata sin da bambini: un libro iniziato, va terminato!

Ma chi lo dice?

Forse dovremmo riflettere sul rapporto tra costi e benefici.
Forse dovremmo domandarci perché leggiamo un libro.

Nella maggior parte dei casi è per svagarci, distrarci, evadere.
Chi ama leggere lo sa: un libro ci porta lontano e, quando lo chiudiamo, siamo di nuovo a casa.

Ma se quel libro non ci piace? Se lo troviamo noioso, poco interessante? Se ci intristisce?

I libri possono piacerci o meno anche a seconda del momento in cui li leggiamo.
Un romanzo che in un momento triste della nostra vita ci risulta illeggibile, in un momento più sereno può esserci d’aiuto per riflettere. Quindi nulla va perduto!

Ecco: gli esperti parlano di “sunk cost fallacy”, che tradotto significa “costo irrecuperabile”.

Questo è il vero motivo per il quale non abbiamo il coraggio di lasciare a metà un romanzo.

Ve lo dimostro con un esempio classico:
se andiamo al ristorante, ci sforziamo di finire il pasto anche quando siamo ormai sazi.
Se invece siamo a casa nostra, la pietanza viene messa da parte per essere consumata in un altro momento.

Il motivo è scontato: abbiamo pagato e quindi lasciare il cibo nel piatto ci sembra un vero spreco.

Con un libro succede qualcosa di simile:

oltre ad averlo acquistato, abbiamo investito pure tempo ed energie nella lettura.

E non è cosa da poco, visto che il tempo a nostra disposizione è sempre scarso e le energie che abbiamo vengono spesso consumate del tutto sul posto di lavoro.

Gli esperti, per questo, ci invitano a cambiare la prospettiva:
la vera perdita di tempo ed energie è continuare a leggere un libro che non ci appaga.

Se ci pensate bene, hanno ragione!

Dal punto di vista dello “spreco”, sforzarci di terminare un libro che troviamo pesante ha dei costi molto alti.
Molto più alti che non interromperlo, per leggerlo magari in un altro momento della nostra vita, oppure regalarlo a chi potrà apprezzarlo o donarlo a qualche biblioteca, affinché possa essere letto da chi è davvero interessato.

Perciò… basta sensi di colpa!

Se un libro proprio non ci piace… abbandoniamolo!