Se vuoi “orientarti” bene, inizia in seconda media.

Gli studenti all’ultimo anno della “ex scuola media” hanno solo tre mesi di tempo (da settembre a dicembre) per decidere a quale scuola superiore iscriversi.

E’ una scelta importante, perché frequentare una scuola non adatta significa poi ritrovarsi demotivati, fare fatica a studiare e quindi avere un basso rendimento, che porta col tempo a sentirsi inadeguati, con la conseguenza di una scarsa autostima nelle proprie capacità.

Tutto questo può portare i ragazzi a non voler più cogliere nuove sfide né a mettersi alla prova.
In poche parole, a non volersi porre obiettivi, per paura di fallire o di non essere in grado di raggiungerli.

Ecco perché orientarsi bene è fondamentale.

Il percorso di Orientamento a scuola, fatto in classe con i docenti, è utile sia per capire le differenze tra i vari tipi di scuola superiore (liceo, istituto Tecnico, professionale, ecc.) sia per conoscere le caratteristiche specifiche di ciascuno (quali materie si studiano, per quante ore, quali sono gli indirizzi e gli sbocchi professionali).
Altrettanto utili, a questo scopo, sono le proposte dei singoli istituti: partecipare al loro Open Day permette di visitarli e di fare delle domande di approfondimento.
Di solito gli studenti trovano interessanti anche i Saloni dell’Orientamento, dove possono raccogliere informazioni e ricevere brochure da consultare con calma a casa insieme alla famiglia.

Nonostante questo, molti ragazzi sbagliano la scelta e si ritrovano bocciati al termine del primo anno.
Come mai?

I ragazzi non si conoscono.
Scelgono spesso in base alla “bravura” a scuola (sono bravo in matematica, quindi liceo scientifico), ma i buoni voti non predicono per forza i risultati futuri, che dipendono da tante variabili (i docenti, il gruppo classe, il contesto).

I voti perciò possono dare indicazioni fuorvianti, poiché non parlano dei desideri, dei sogni, delle passioni e degli hobby dei ragazzi.

Pensate al draghetto Grisù che sputava fuoco, ma voleva fare il pompiere e salvare la gente.
Quello era il suo sogno!

Perciò indaghiamo su che cosa li rende felici e, se non lo sanno, recuperiamo l’informazione da ciò che amavano fare da piccoli.

Quale attività fa perdere loro il senso del tempo e dello spazio?
Dovranno trascorrere cinque anni a scuola: come li vogliono passare?

Non focalizziamoli sul trovare lavoro in futuro, perché il mercato del lavoro è così mutevole che è impossibile prevedere quali saranno gli sbocchi professionali da qui a 5 anni.

Perciò meglio tenere in considerazione le loro potenzialità e aspirazioni, ma anche i loro tempi di concentrazione e il valore che attribuiscono allo studio.

Evitiamo le scelte fatte solo per vicinanza a casa, per seguire il gruppo di amici, per far felici i genitori, seguendo magari le loro orme, oppure per liberarci da una materia in cui facciamo un po’ fatica: le difficoltà fanno parte della vita ed è meglio imparare ad affrontarle, scoprendo come.

Studiare è faticoso, ma scegliere la scuola giusta può renderlo piacevole.

 

*Articolo scritto da Laura Gazzola e pubblicato in un inserto sul Mondo della Scuola de “IL CITTADINO MB”  del 18 gennaio 2020.

Se vuoi figli felici, non metterli sotto una campana di vetro.

Ci sono aspetti dei figli che sfuggono anche ai genitori più attenti e che finiscono per preoccuparli.
Parliamo di ragazzi che ci appaiono ansiosi, inquieti, che sembrano non riuscire a sopportare le tristezze e i dolori della vita… Sì, insomma, ragazzi che talvolta definiamo “disorientati”.

Queste caratteristiche (se prive di cause oggettive) ci danno un’informazione preziosa, a cui magari non abbiamo mai pensato, ovvero che

i ragazzi abbiano un concetto di felicità legato solo ai “piaceri immediati”,

quelli del presente, di ciò che va consumato al momento, come il pomeriggio alla Spa, la serata in discoteca, la cena al “All you can it”, i week-end fatti per “staccare la spina” che regalano un benessere molto limitato.

Un piacere che dura il tempo del momento, ma che poi non li fa stare bene, ma li costringe ad una continua ricerca di felicità.

Ed ecco, allora, che anche il rientro dalle vacanze diventa un dramma.
E quando i genitori vedono i figli infelici, nonostante ciò che di bello hanno vissuto, iniziano a pensare che qualcosa in loro non vada.

Il sospetto viene poi confermato dalle affermazioni degli altri: “Eh, ma come mai non è felice? Con la vacanza che gli avete fatto fare…”.

E così i genitori attenti cominciano ad indagare: prima con semplici domande “Ma che cos’hai?”, “E’ successo qualcosa?” e, trovandosi di fronte un figlio/a infelice che non sa nemmeno spiegare il perché, temono il peggio e corrono ai ripari con visite, esami e poi cure.

Il risultato però non cambia: il figlio resta infelice.

E allora l’aggettivo che comincia a definirlo più spesso è “poverino”! Già, perché evidentemente le cure non funzionano e non è certo colpa sua se è così abbattuto e in ansia.
“Forse è depresso”…

Vedete, con questo atteggiamento però noi li facciamo sentire delle vittime e quindi togliamo loro qualsiasi responsabilità nell’affrontare ciò che crea loro disagio.

Sono giù di morale, tristi, infelici: tutte emozioni negative da cui vogliono fuggire.
Desiderano essere felici e stanno male se devono convivere con ciò che li mette a disagio.

Ma noi sappiamo bene che la Vita è piena di avversità più o meno pesanti da affrontare.

I ragazzi oggi cercano una vita priva di problemi e spesso i genitori fanno in modo di “regalargliela”.
Solo che questo stile educativo indebolisce i ragazzi, perché non li allena ad affrontare le avversità.

Se amiamo i nostri figli, dobbiamo lasciare che affrontino le difficoltà.
Solo così li aiuteremo a crescere, a far emergere le loro risorse.

Quindi, se vogliamo il bene dei nostri figli, non spianiamo loro la strada.

E sapete perché così facciamo loro un regalo prezioso?

  • Diamo loro la possibilità di migliorare la stima che hanno di sé, perché potranno scoprire le loro capacità nascoste.
  • Le avversità (come un lutto, un divorzio, un licenziamento, una malattia in famiglia) diventeranno un filtro nelle loro relazioni sociali. Pian piano impareranno a separare gli amici del sabato sera da quelli veri, a cui si affezioneranno ancora di più, visto che li avranno avuti vicini nel momento del bisogno.
  • Miglioreranno il senso della vita, perché – affrontando problemi anche seri – cambieranno le loro priorità.

Perciò… non sostituiamoci ai nostri figli, non mettiamoli sotto una campana di vetro: non trasformiamoli in esseri fragili e indifesi.

Troveranno la vera felicità solo quando saranno capaci di superare le difficoltà e non avranno paura di fare dei progetti e di realizzarli.

Vuoi farti notare? Usa meglio lo smartphone!

Oggi la gente ama farsi notare per come si veste, per ciò che possiede, per le persone che frequenta, per i followers che ha sui social.

Uno degli elementi che vengono meno considerati per farsi notare è l’educazione.

Parliamo pure in generale, ma fateci caso: è proprio così.
Eppure “essere educati” significa adottare comportamenti positivi, che rendono migliori noi, ma anche i nostri figli e quindi l’intera società.

Sono forse un’illusa? Non credo proprio.

Migliorare il mondo in cui viviamo è possibile: dipende da ciascuno di noi.

E allora perché non partire dall’uso dello smartphone?
Quell’oggetto che ormai è parte integrante di noi, quasi una sorta di appendice?

Vediamo cosa possiamo fare concretamente per dimostrare agli altri che “essere educati” fa bene a tutti:

  • Quando siamo in mezzo agli altri, evitiamo di “urlare” al cellulare. Basta usare un tono di voce che non disturbi e che non obblighi gli altri ad ascoltare i fatti nostri.
  • Quando siamo in pubblico, non mettiamoci a discutere, litigare, raccontare fatti privati facendo nomi e cognomi. Le persone hanno già i propri problemi e non è il caso che si sorbiscano anche i nostri.
  • A tavola non teniamo il cellulare sul tavolo (vicino al tovagliolo). Il pasto è il momento di guardarsi in faccia e di scambiare qualche parola, perciò niente tablet né cellulari.

Sì, vabbè Coach, ma come facciamo a farlo rispettare ai figli?

Vi suggerisco un modo semplice ed efficace: puntate un timer da cucina su quanto tempo prevedete che durerà il pranzo o la cena e, finché non suonerà, il cellulare resterà in un’altra stanza o in una cesta apposita. 😉

  • Al ristorante o a casa di amici, mettiamo in vibrazione il cellulare ed evitiamo di far “suonare” le notifiche: in questo modo dedicheremo tutta la nostra attenzione agli amici, che lo apprezzeranno.
  • Nei luoghi culturali (teatro, cinema, mostre e musei), ma anche nelle chiese o nelle aule universitarie e scolastiche, mettiamo la modalità “silenzioso” e teniamola per tutto il tempo necessario. Sarà per noi un vero stacco dalla quotidianità e dimostreremo rispetto per chi lavora o visita questi luoghi.
  • Usiamo il vivavoce solo se siamo da soli, magari in macchina. Anche per ovvie questioni di privacy.
  • In linea generale, a proposito di lavoro, a meno che la professione della persona a cui telefoniamo non preveda la reperibilità h.24, cerchiamo di chiamare tra le 9 e le 18 e non al di fuori. E se proprio non possiamo farne a meno, chiediamole: “Può parlare in questo momento?” e aggiungere “Oppure vuole che la richiami?”.
  • Con amici, familiari e parenti, invece, vale sempre la buona norma di non telefonare durante i pasti (ad esempio h.12.00-13.45 e h.19.30-21), ma nemmeno dopo le h.22, perché potrebbero allarmarsi.

Se ci pensate sono piccoli accorgimenti che però fanno la differenza.
A noi non costano nulla, ma ci fanno guadagnare in “immagine” oltre che in sostanza.

Che ne dite?

“Vabbé, a parte il fatto che si fa le canne, è un ragazzo normale!”.

Così mi ha detto un ventenne parlando di un suo nuovo amico.
Ma è davvero “normale” che un giovane fumi hashish o marijuana?
Perché dobbiamo porci la domanda, se vogliamo assumerci un ruolo educativo.
E non aiuta, come genitore, dirsi: “No, ma mio figlio non lo fa” oppure “Mia figlia non frequenterebbe mai certe compagnie”.

Perciò provate a chiedere ai vostri figli se per loro è normale che un coetaneo fumi abitualmente marijuana. Probabilmente vi risponderanno di sì, anche se loro non lo fanno.

Riflettiamoci insieme, ora, tralasciando il consumo che ne fanno gli adulti e la discussione sugli effetti e sulle conseguenze.

Parliamo di adolescenti, di ragazzi delle scuole superiori e degli universitari.
Ragazzi quindi che studiano, che hanno a disposizione tutte le informazioni sugli “spinelli”.
Ragazzi che non lavorano, ma hanno a disposizione dei soldi che vengono dalla famiglia.

Giovani che escono dallo stereotipo del “tossico” anni ’80, che si vedeva vagare in giro per Milano “strafatto”, barcollante, col braccio pieno di buchi e gli occhi semichiusi, destinato a morirci di eroina.

Per molti dei nostri giovani, un ragazzo che fuma “erba” è normale quanto uno che non lo fa.

Ma secondo voi… è davvero così?

Mi sono presa la briga di documentarmi e ho letto parecchie testimonianze di adolescenti (12-20 anni) che sono soliti “farsi le canne”.

Le motivazioni sono per lo più legate al desiderio di sentirsi bene con se stessi e col gruppo a cui si è scelto di appartenere; al sentirsi in pace, rilassati e tranquilli, riuscendo così ad alleviare lo stress della scuola e degli impegni.

Un modo veloce per “staccare un attimo la spina e svuotare la testa da tutti i problemi, liberandoti da qualunque preoccupazione ti stia assillando”.

Qualcuno lo fa per solitudine, qualcun altro per sentirsi “potente”, allegro, felice e “vivere in modo migliore la vita”, guardandola da un’altra prospettiva, quella più piacevole.

Ma ci sono molti altri che fumano spinelli perché ciò li aiuta a pensare, a riflettere:

“Ti apre la mente e ti porta a grandiosi ragionamenti ai quali durante la vita quotidiana non saresti mai arrivato”.

Sanno che non risolverà i loro problemi, ma “aiuta a guardarli tutti insieme da lontano”.

Alcuni di loro esprimono il bisogno di voler scappare dai problemi (anche solo per un’ora) e attribuiscono alle “canne” il potere di far loro provare sensazioni che non riuscirebbero mai a raggiungere “normalmente”.

Ricorrono spesso nelle loro risposte parole come “normale” o “normalmente”.

E sapete qual è un sinonimo di “normale”?
Il dizionario riporta “sano”.
Mi piace accostare questi due aggettivi: “normale” e “sano”.
Come a dire: un ragazzo “normale” è sano.

E dunque vi sembra “sano” (e quindi normale) un ragazzo che ricorre alla cannabis per vivere meglio?

Questi ragazzi fumano per “smettere di pensare”, ma la mente fa parte di noi, come il cuore, i polmoni. Non possiamo fermarla, ma solo confonderla, anestetizzarla, ma così facendo non risolviamo certo i nostri problemi.

Fumano “per poter guardare i loro problemi tutti insieme da lontano”.
Ed è questo il problema: che i problemi non vanno guardati tutti insieme, perché il rischio è quello di esserne schiacciati.
Vanno guardati uno ad uno, mai contemporaneamente. E bisogna occuparsi di ciascuno di essi in modo separato, dandosi del tempo, fino a risolverlo del tutto.

E’ dura affrontare la quotidianità, con la sua noiosa routine da una parte e i mille disagi (di salute, di relazione, di lavoro, di studio) dall’altra. Ma non farlo in modo cosciente e consapevole toglie la possibilità di trovare una soluzione.

Bisogna fermarsi (non fermare la mente) e chiedersi:
“Che cosa mi annoia?”
“Che cosa mi piace fare?”
“Quale attività mi fa perdere la cognizione del tempo e dello spazio?”.

Tutti abbiamo bisogno di “staccare la spina” ogni tanto, ma dobbiamo far capire ai giovani che possiamo farlo in mille modi appassionanti, senza ridurci a una “canna”.

I ragazzi intervistati facevano spesso riferimento al gruppo, che in effetti è molto importante in quella fascia d’età.
Ma possiamo farli riflettere sul fatto che la parola “gruppo” si può legare a splendide esperienze, non per forza allo sballo.

Possono essere felici praticando uno sport “di gruppo” o suonando in una band o coltivando interessi comuni, come la passione per le auto o le moto.

Ci sono mille modi per evitare di iniziare a fumare le “canne” e in questo possiamo davvero guidarli.

La prima cosa è far loro capire che “non è normale” farlo (anche se lo fanno in molti).
La normalità va in direzione della salute, della realizzazione, della felicità e tutto questo non si può trovare in uno spinello.

Nessuno deve mancarvi di rispetto!

Oggi vi parlo di “rispetto” e di “farsi rispettare”, perché in un solo giorno mi è capitato di assistere a due episodi che mi hanno lasciata senza parole.

Nel primo episodio ero in un negozio in attesa del mio turno. La coppia di mezza età, che il commesso stava servendo, si stava confrontando sull’acquisto. Ad un certo punto il marito alza la voce e, con tono autoritario, strilla alla moglie: “Stai zitta, va’! Che hai già parlato troppo!”.

Nel secondo episodio ero al parco. Una sedicenne cammina col suo cane al guinzaglio e parla al telefono in modo seccato: “Mammaaa, ti ho detto di no!” esclama. E poi urla: “Porca p….!, Caxxo! Ti ho detto di no!”.

Questi due casi dimostrano che:
1. L’uomo e la sedicenne hanno mancato di rispetto.
2. La moglie e la madre hanno permesso che mancassero loro di rispetto.

Magari è capitato anche a voi che qualcuno vi mancasse di rispetto. E come avete reagito?

Siete rimasti in silenzio, pensando: “Non è possibile che stia capitando proprio a me!” oppure avete immediatamente reagito?

Alcuni non reagiscono perché non hanno ben chiaro il concetto di rispetto.

Sappiate, però, che qualunque sia il vostro ruolo (di genitori, coniugi, lavoratori), il rispetto è qualcosa che dovete pretendere. E’ anche una questione di dignità.

Significa essere riconosciuti, considerati per ciò che siete e per il valore che avete.

Vuol dire non permettere a nessuno di offendervi con le parole, ma anche con il linguaggio non verbale fatto di espressioni facciali, alzate di spalle, smorfie, sbuffi…

Se desiderate il rispetto, dovete per primi rispettarvi, cioè amarvi, stimarvi, sentirvi importanti.
Al contrario, se pensate di essere scontati, sostituibili, inadeguati e manchevoli, allora gli altri non vi rispetteranno mai, perché i primi a mancarvi di rispetto sarete proprio voi.

Chi vi rispetta vi tratta con educazione.

Se, invece, si comporta con voi in modo offensivo e indelicato, vuol dire che gli avete “permesso” di oltrepassare il limite.

Perciò, il primo gesto importante da compiere verso voi stessi è “definire il vostro limite”, cioè il confine che gli altri non devono superare.

Una cosa utile, che mi sento di consigliarvi, è fermarvi a riflettere e poi scrivere su un foglio quali sono i “confini” che gli altri dovranno rispettare per non mancarvi di rispetto (ad esempio: “non permetterò a nessuno di dirmi parolacce, nemmeno per scherzo”). E poi aggiungete cosa risponderete nel caso qualcuno oltrepassasse i vostri confini (es. “risponderò: oh, ma come ti permetti!” oppure, simpaticamente “oh!, ma cosa sono queste confidenze?!”, ecc.).

Se a mancarvi di rispetto sono i figli, significa che non avete fatto loro comprendere che gli adulti siete voi e che loro sono tenuti ad osservare le vostre indicazioni/regole. Perciò, ristabilite i ruoli (in un prossimo articolo vi spiegherò come).

Se a mancarvi di rispetto è il partner, parlate chiaramente: fate presente che ha oltrepassato il limite. Non c’è bisogno di litigare, ma dovete avere ben chiaro che cosa non volete accettare e comunicarlo con calma e fermezza.

Prossimamente approfondiremo il tema del “rispetto”. Intanto vi lascio con questa frase:

“Se non si è convinti del proprio valore, non ci si farà mai rispettare: senza autostima non si va lontani. Dignità e autostima vanno di pari passo.”    Paolo Crepet

Vuoi migliorarti? Trova un “mentore”!

Capita nella vita di avere bisogno di qualcuno che ci sappia dare buoni consigli e che sia saggio e fidato.
Poco importa che sia donna o uomo, l’importante è che abbia tanta esperienza in ciò che desideriamo imparare o fare.

Questa persona è il “mentore”: qualcuno capace di insegnare, ispirare e guidare gli altri con la sua passione per ciò che fa e perché nel suo lavoro è coerente con i suoi valori.
E’ un esempio proprio grazie alla sua Vita, perché ciò che trasmette è coerente con ciò che è e con ciò che vive.

Bambini o adulti, abbiamo tutti bisogno di trovare un mentore se vogliamo diventare “migliori” in qualcosa.
Qualcuno capace di rispettare il proprio ruolo (di educatore, allenatore, insegnante, coach, esperto, genitore…), continuando ad amare ciò che fa.
Un ruolo non facile, ma certamente gratificante.
Pensate, ad esempio, ad un genitore che diventi “mentore” dei propri figli.

Magari state pensando di poter essere voi dei buoni mentori!
Perché no?!

Ma per esserlo, bisogna avere certe caratteristiche, altrimenti non si è credibili. Altrimenti si è semplicemente persone che dispensano banali consigli e chi vuole migliorare se stesso non ha certo bisogno di perdere tempo con frasi scontate.

Il “mentore” è speciale, perché insegna tutto ciò che sui libri non c’è, perché si basa sull’esperienza, sulla pratica che ha fatto dopo aver studiato.

Oh, certo che possiamo imparare di tutto leggendo libri, ma se vogliamo imparare “come” si fa bene qualcosa, dobbiamo trovare qualcuno bravo a farlo e disponibile a mostrarcelo.
Credo che l’esempio della nonna che insegna a cucinare una squisita torta calzi a pennello!

Teoria ed eccellente pratica: ecco le qualità del bravo mentore!

Vuoi diventare tu un mentore?
Ti piace l’idea di “trasmettere” tutto ciò che sai e che sei (a un figlio o magari ad un collega più giovane)?

Allora sappi che per diventare un bravo mentore ed essere “efficace” devi:
Essere umile, ovvero condividere ciò che sai, senza calarlo dall’alto.
Dare consigli e indicazioni chiare, cioè semplificare le informazioni per farle comprendere meglio.
Mirare le indicazioni a seconda di chi hai davanti, perché non siamo tutti uguali.
Andare oltre a come ti appare chi hai davanti.
– Essere capace di cogliere l’essenziale, cioè di lavorare sui dettagli, su ciò che conta davvero, buttando via tutto il resto.
Avere una mente flessibile.
– Aver sperimentato sulla tua pelle come fare a superare le difficoltà.
Avere sempre voglia di imparare qualcosa di nuovo ed essere capace di metterti in discussione per migliorare te stesso.

E se desideri in particolare modo essere il “mentore” dei tuoi figli:
– Concentra la tua attenzione nel trovare strade diverse per dare a tuo figlio la possibilità di “crescere” sempre più.
Sforzati di capire “come” stimolare tuo figlio.
Aiuta i tuoi figli a capire “dove” vogliono andare e “cosa” vogliono fare.
Non arrenderti, se vedi che tuo figlio ha difficoltà o sembra non essere motivato.
Assumiti la responsabilità dei suoi risultati, nel senso di essergli a fianco e aiutarlo, sostenerlo e guidarlo ogni giorno. Il genitore sei tu: tocca a te farlo crescere e migliorare.

Se invece non desideri essere tu un mentore, ma vuoi trovarne uno bravo… non ti resta che cercarlo: le caratteristiche che deve avere ora le conosci.

Caro genitore, dipende da te come ti tratteranno i tuoi figli quando sarai anziano.

Non ho mai conosciuto i nonni, quelli che ti strapazzano di baci e ti abbracciano così forte da toglierti il fiato. Sono morti prima che nascessi, lasciando sole le nonne. Però ho avuto la fortuna di vivere i primi anni della mia vita insieme a una nonna speciale e a una bisnonna birichina.

E’ vero, la nonna era malata di quel male che non risparmia quasi nessuno, ed io avevo solo cinque anni “e mezzo” quando è mancata, ma i ricordi che mi ha lasciato sono ancora vivissimi e a volte mi sembra di sentire ancora la sua voce, con quella “erre” così diversa da tutti gli altri e il suo sguardo così dolce.

Ero (e continuo ad essere) innamorata di mia nonna, perché mi faceva sentire importante…

Bastava il suo sguardo, una sua occhiata complice e io sentivo tutto il suo amore.

Eh, i nonni! Quale dono prezioso del cielo!

In casa mia, lei e la bisnonna erano rispettate e coccolate: il valore della loro saggezza era inestimabile.

Oggi purtroppo non è più così. Almeno nella maggior parte dei casi.

Non vanno più di moda il rispetto, l’ammirazione e l’attenzione verso gli anziani.

Quante volte assisto a scene in cui i nipoti maltrattano a parole e a gesti i nonni!
Quante risposte maleducate, espresse con parolacce e tono di voce sprezzante!
Magari in presenza dei genitori, che nemmeno intervengono!

Eh, già! I nonni… Chi li rispetta più?!

Ho visto nipoti sbuffare in faccia ai nonni a cui erano affidati. E ho visto i nonni spiazzati, incapaci di reagire.
Un dono del cielo buttato via!
Che tristezza, se penso a quanto avrei voluto continuare a crescere con la mia nonna accanto…

Il fatto è che oggi ben pochi genitori insegnano “il rispetto per l’anziano” ai figli e così vanno perse tutte quelle buone azioni che invece – se compiute – fanno stare bene sia chi le riceve sia chi le fa.

E allora perché non rivederle insieme, qui, ora?

Caro genitore, sei al timone del tuo vascello! Sei il capitano della nave!

Dipende da te, da una tua scelta educativa, se domani – quando sarai anziano – tuo figlio ti tratterà con rispetto, stima e tuo nipote si rivolgerà a te ammirando la tua saggezza e il tuo valore.

Perciò non perdere tempo prezioso!

Che tuo figlio sia piccolo oppure già grande, “allenalo” al rispetto per chi è anziano.

Fagli comprendere il valore della vecchiaia e farai un regalo a te stesso, ma anche a tutta l’umanità.

Parti da qui e sii d’esempio:

1. Dare del “lei” agli anziani che non si conoscono.
Non è difficile per i bambini imparare a farlo. Certo, è faticoso per noi adulti dover insistere e correggerli, ma ti assicuro che a 8 anni ci riescono perfettamente. Io l’ho fatto e ha funzionato.

2. Offrire il proprio aiuto.
I nonni non chiedono nulla, ma non significa che non abbiano bisogno.
– Offrirsi di portare al posto loro dei pesi, come i sacchetti della spesa o le confezioni di acqua, può solo far piacere.
Prenderli sotto braccio, quando devono attraversare la strada o scendere le scale, è un gesto d’affetto, ma è anche un valido sostegno per loro che così si sentono più sicuri.

3. Cedere il posto a sedere.
Che sia in chiesa, in un ufficio, sul treno o sull’autobus, chiedere ad un anziano se vuole il nostro posto a sedere e alzarci per cederglielo, resta sempre un bel gesto che ci distingue dal resto della gente. In fondo, stare in piedi quando si è giovani, non è una gran fatica.

4. Rivolgersi ai nonni/anziani con educazione.
Significa:
– Capire che sono “grandi” e non bambini.
– Evitare toni aggressivi, arroganti, saccenti.
– Evitare le frasi e gli atteggiamenti di compatimento (se non capiscono qualcosa non vuol dire che sono “deficienti”).
– Non sbuffare loro in faccia né fare “spallucce”.
– Censurare frasi del tipo: “Ma sei sordo?!”, “Non hai capito niente!”, “Non sei capace!”, perché a nessuno di noi, tantomeno a dei bambini/nipoti, piacerebbe sentirsi giudicare a quel modo.

5. Rispettare il loro riposo.
Vuol dire non disturbarli se e quando hanno bisogno di fare un pisolino. Perciò non gridare, non svegliarli, evitare di fare giochi rumorosi vicino a loro.

6. Essere pazienti.
Lo so, a volte non è facile, ma dobbiamo far capire ai bambini che anche loro, quando saranno anziani, avranno bisogno di più tempo per ricordare le cose o comprenderne di nuove. Bastano un bel respiro e un sorriso. In fondo, quante volte dobbiamo ripetere le cose a loro, ai bambini?

7. Evitare di evidenziare i loro problemi legati all’età.
Far notare ad un nonno che cammina troppo lentamente, che non ci sente, che sta perdendo i capelli o dirgli che fa ridere con la dentiera o che va troppo spesso a fare pipì non lo aiuta a stare meglio. E’ già un disagio per lui… Perciò, perché infierire?

8. Far loro dei complimenti.
Basta davvero poco! Insegniamo ai figli a “valorizzare” i nonni, facendo loro notare le qualità che hanno: “Nonno, come sei bravo a bocce!”, “Nonna, sei bravissima a fare la torta di mele!”.
Ci sono anche dei complimenti mascherati da richieste d’aiuto, che fanno sentire i nonni utili e ancora in gamba: “Nonno, tu che sei bravo a costruire le cose, mi aiuti con il compito di tecnologia? Devo usare il traforo…”, “Nonna, tu che sei la migliore, mi insegneresti a cucinare la torta di mele?”.

9. Non fissare gli anziani con handicap.
Di solito è la prima cosa che si insegna, quella di non guardare fisso né additare chi ha un handicap. Con gli anziani, che diventano sensibili e permalosi, è bene ricordarselo. Perciò, se un anziano cammina col girello o zoppica o ha un equilibrio precario, insegniamo a non riderne, ma a comprenderne la difficoltà.

10. Salutare per primi.
E’ importante che i figli, grandi o piccoli, sappiano che è buona regola salutare per primi gli anziani. Un sorridente “Buongiorno”, quando si incontra un anziano, non ha mai fatto male a nessuno!

11. Far visita e telefonare.
I nonni che non vivono in casa con noi e nemmeno a così breve distanza da poterci andare a piedi, di solito soffrono un po’ di questa lontananza e spesso sono loro a muoversi o a telefonare.
Perché allora non sollecitare i bambini/adolescenti a chiamare i nonni? A informarsi se stanno bene o semplicemente a salutarli?
I nipoti adolescenti hanno cellulari costosissimi e messaggiano continuamente.
Perché allora non trovare un minuto per chiamare i nonni?

Ecco, sono certa che molti di voi potrebbero suggerirne altre di “buone pratiche” e quindi, perché non scriverle tra i commenti?

Il Mondo, la cosiddetta “società”, siamo noi.
E sta a “noi” renderla migliore.
Magari partendo proprio da qui.

Con i figli… “cogli l’attimo” e non te ne pentirai!

Due settimane fa ero sul lago: leggevo un bel libro, ammirando di tanto in tanto il paesaggio.
Proprio a pochi metri da me, ad un certo punto, vedo passare una vecchia barca di legno: un uomo anziano, con la pelle abbronzata e i capelli bianchi mossi dal vento, remava stando in piedi e facendo una certa fatica.

La barca a remi procedeva lentamente: a prua, un bambino di otto-nove anni stava seduto e rilassato, contemplando il lago.

“Vieni qui, ora! Ti insegno come fare” gli dice il vecchio.
“Ma nonno, sono troppo piccolo!” si affretta a rispondere il bambino.
“Non è vero, io ho imparato alla tua età” commenta tranquillo il nonno.
“Ma perché DEVO impararlo adesso?” chiede il nipote.
“Perché io non so quanto riuscirò ancora a remare e tu devi saperlo fare” spiega l’uomo.
“Sì, nonno, ma PROPRIO ADESSO?” si lamenta il ragazzino.
“Certo! Perché GIA’ mi sento un po’ stanco…” risponde il nonno con tono affettuoso.

Volete sapere com’è andata a finire?

Ho visto il bambino mettersi ai remi, guidato dalle mani e dalle indicazioni del nonno, e remare… Remare fino a far scivolare veloce sull’acqua la barchetta.

Volete sapere che espressione aveva sul viso il bambino?

Il suo sguardo, inizialmente concentrato e serio, ha poi mostrato tutta la soddisfazione e la gioia di esserci riuscito.

Non è una storiella inventata, questa.
E’ una storia vera, di quelle che chiunque può “vedere” se interessato e incuriosito dal comportamento umano.

Sapete perché ve l’ho raccontata?
Perché… CARPE DIEM, come direbbe il bravo professore del film “L’attimo fuggente”.

Dobbiamo saper cogliere le occasioni per insegnare qualcosa ai nostri figli, nipoti, perfino al partner.

Non si tratta di “mettersi in cattedra” e impartire una lezione. E chi la ascolterebbe?!

Nelle molteplici occasioni dobbiamo saper scegliere il momento migliore, quello che si presta meglio a darci una mano a trasmettere un valore, una tradizione, un ricordo, qualcosa di pratico (come remare).

Non facciamo l’errore di rimandare… “Tanto poi c’è tempo!”.
Il tempo non c’è!
Ecco perché “carpe diem”: cogli l’attimo!

Quel nonno è stato eccezionale a cogliere l’attimo.
Se avesse rimandato al giorno dopo, le condizioni non sarebbero state le stesse. E magari il nipote non l’avrebbe assecondato.
Ma le sue parole, il tono, il significato implicito del “non sarò qui vicino a te per sempre”… hanno colpito il nipote, che ha deciso di provare.

Quel nonno ha dato una lezione a tutti noi, perché in una frase ha racchiuso un valido insegnamento:

con i bambini e coi ragazzi bisogna spesso inventarsi una “buona scusa” per far sì di essere ascoltati.
Importante è anche dare un tempo, “ora” e non “la prossima volta”.

Dobbiamo cogliere tutta la bellezza di saper coinvolgere i figli, facendoli sentire utili, persino necessari in alcuni momenti.
E loro ci seguiranno, senza protestare, perché si sentiranno importanti, valorizzati.
Come ad esempio una bimba di 5 anni che ho visto accompagnare, tenendola per mano, la nonna che si reggeva col bastone…

Quanta tenerezza, quanta disponibilità e amore in quel gesto.

Ma i bambini, i ragazzi sono così: capaci di “dare” tantissimo e imparare tantissimo.

Sta a noi “cogliere l’attimo” e domandarci:

“Quanto è importante per me trasmettere a mio figlio ciò che so, ciò che amo, ciò in cui credo?”…

e il gioco è fatto!

Smettiamo di essere delle “isole” e guadagniamo in serenità!

“E’ tutto uno schifo!”, “Va tutto male!”, “Non funziona niente!”, “E’ colpa della società!”…
Quante volte ascoltiamo o produciamo continui mugugni fini a se stessi?

La verità è che siamo diventati delle isole: ciascuno per sé e nessuno per tutti!

Abbiamo frainteso il suggerimento di “pensare un po’ a noi stessi” e l’abbiamo trasformato in “prima io e poi gli altri”.
Questo – a sua volta – si è tradotto in mancanza di attenzione, di ascolto, di rispetto per gli altri.

La saggezza insita nel concetto “la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri” è diventata “prima di tutto viene la mia libertà – ovvero tutto ciò che voglio fare – e gli altri si arrangino”.

In tutta sincerità, mi fa male scrivere questa riflessione, che è frutto di anni di osservazione di questa “nuova” umanità, perché io non mi sento e non sono così.
Tuttavia, si sa, bisogna necessariamente generalizzare, anche se questa esigenza mi fa venire l’orticaria!

Per cambiare le cose, però, questa pseudo-filosofia non funziona.
Basta guardare come ci siamo ridotti…: imbronciati, cupi, infelici.

Non è mettendosi sempre ed esclusivamente al centro di tutto che si diventa felici: esistono anche gli altri.

Già: gli altri! Quelli per i quali si sprecano le critiche, i giudizi, le cattiverie.
E di solito si tratta di critiche “distruttive” e non costruttive.
E’ sufficiente leggere i commenti sui social per rendersene conto.
L’intento è demolire l’altro: la sua (buona) immagine, la sua (seria) professionalità…

Si distrugge l’altro per emergere e, la cosa peggiore è che lo si fa davanti a chi sta crescendo, ai figli, che così imparano immediatamente a fare lo stesso.

“Ma cosa ci possiamo fare se il mondo va così?”.

Ehhh, troppo facile risolvere la questione in questo modo, con un “me ne lavo le mani”, mi arrendo, non è affar mio!

Le cose si possono cambiare. Noi possiamo cambiare.

“Di impossibile non c’è niente, se stiamo uniti” dice il personaggio di un romanzo di Andrea Vitali. Ed è così!

Iniziamo dal nostro vivere in famiglia:

  • facciamo sentire ai figli che papà e mamma sono “uniti”, che si vogliono bene e si trattano con rispetto. Eliminiamo quindi le liti e le discussioni davanti ai figli, soprattutto le critiche offensive e le esclamazioni con parolacce.
  • Alimentiamo in casa la bellezza di “essere uniti” in famiglia: l’importanza di andare d’accordo, di trovare soluzioni che accontentino un po’ tutti, che regalino serenità.
  • Valorizziamo i componenti della famiglia: tutti e non solo chi ha più affinità con noi.
  • Usiamo un linguaggio positivo, che incoraggi ad affrontare i problemi, le sfide e stimoli ad agire (piuttosto che a criticare e basta).
  • Insegniamo ai figli la ricchezza di aiutare chi è in difficoltà (magari dando una mano ad un compagno che viene un po’ isolato per la sua timidezza).
  • Diamo il buon esempio come adulti, trattando con gentilezza le altre persone e dedicando loro un po’ della nostra attenzione.

Se ci impegneremo a mettere in pratica quotidianamente questi semplici comportamenti, allora sì che cambieremo le cose.

Allora sì che smetteremo di essere e di crescere delle “isole”.

E col passare del tempo, questa “unione” balzerà agli occhi degli altri e sarà d’esempio a qualcuno che deciderà di fare lo stesso.

E l’input sarà inarrestabile… così come i suoi meravigliosi risultati,

perché smettere di essere delle aride “isole” può solo regalarci gioia e serenità.

Grazie al Teen Coaching, il rapporto con mio figlio è decisamente migliorato!

Sono la mamma di un ragazzo di 17 anni e vorrei portare la mia testimonianza riguardo al Teen Coaching, nella speranza di essere d’aiuto a qualcuno di voi.

L’anno scorso mio figlio Riccardo stava attraversando un periodo un po’  particolare a scuola: molto studio, ma scarsi risultati.

Tutto ciò creava in lui insicurezza e frustrazione.

Un giorno mi chiese di contattare Laura, di cui gli avevo parlato (essendomi approcciata anch’io in passato al Life Coaching).

Così non ho perso tempo e ho contattato Laura, che si è subito resa disponibile ad incontrarlo.

Partendo dal “ problema scolastico”, Riccardo ha affrontato man mano diverse tematiche che gli stavano a cuore ed è arrivato a compiere scelte importanti, come ad esempio sospendere l’attività agonistica – pur continuando ad allenarsi nello sport che pratica da 12 anni –  per porsi nuovi obiettivi.

Nel corso di questo percorso ho visto mio figlio “cambiare”.

La cosa che più di ogni altra si è resa evidente è stato  il cambiamento del nostro rapporto, che è diventato decisamente migliore: fatto di ascolto e comprensione reciproca.

Prima potevo definirlo conflittuale!

Ora Riccardo è più tranquillo, ascolta, riflette su ciò che gli si dice, accetta consigli, è più socievole, più gioioso…

Tutte cose impensabili fino ad un anno fa.

È maturato!!!

I benefici del Teen Coaching non si sono limitati solo ai rapporti interpersonali, ma si sono estesi anche alla scuola.

Ha cominciato a pensare al suo futuro e a costruirlo, ponendosi obiettivi scolastici impegnativi: ha infatti vinto una borsa di studio che lo porterà presto a frequentare il 4° anno di liceo in Argentina!

Sicuramente il Coaching gli ha permesso di conoscere meglio le sue potenzialità e lui ha imparato a sfruttarle.

Il percorso fatto non è stato sempre facile, ma la professionalità e l’aiuto costante di Laura hanno portato ad ottimi risultati.

Riccardo ha trovato in lei una guida, un’alleata con cui confrontarsi e aprirsi, parlando liberamente di sé , di ciò che lo preoccupava o lo faceva gioire.

Consiglierei ad ogni genitore di far vivere un’esperienza del genere al proprio figlio/a

Laura si è confermata una professionista straordinaria, che sa come interloquire con un adolescente, facendolo esprimere al meglio!!!

Grazie di cuore, Coach Gazzola!

Con affetto e stima,

Susanna.