Scopri perché non riesci a raggiungere i tuoi obiettivi!

Quante volte ci lamentiamo di non riuscire ad avere ciò che vogliamo?

Sì, lo desideriamo, ma poi “ci perdiamo” oppure non sentiamo più la spinta necessaria a ottenerlo.

E guardiamo chi invece ce la fa, sentendoci “dei perdenti” (si trattasse anche semplicemente di seguire una dieta dimagrante).

Ma perché c’è chi ce la fa e noi no?

Ammesso che il nostro desiderio sia concreto, ciò che fa la differenza viene prima del “mettersi in cammino” e consiste nel definire chiaramente lo scopo per cui vogliamo fare quella determinata cosa.

Facciamo un esempio: prima di iscriverci in palestra, dobbiamo chiarire con noi stessi il motivo per cui vogliamo fare attività fisica.

Per dimagrire? Per tonificare? Per scaricare le tensioni? Per svagarci?

Domandarci, quindi: “Ma io so che cosa voglio?”.

Questo vale in tutti i settori della nostra vita.

Oltre a questo dobbiamo provare il grande desiderio di arrivare al risultato che vogliamo.

Senza il desiderio, infatti, non arriveremo da nessuna parte, perciò domandiamoci:

“Da 0 a 10, quanto desidero realizzare quel mio desiderio?”.

E se la risposta è “5”, significa che quell’obiettivo non è poi così importante per noi.

Al contrario, più ci avviciniamo al 10 e più vorrà dire che siamo convinti di volerlo raggiungere.

E’ fondamentale comprendere questa cosa, perché i desideri, i sogni, gli obiettivi sono una bella cosa e possono regalarci euforia e gioia nel momento in cui li formuliamo, ma ricordiamoci che, per non restare soltanto tali, devono essere trasformati in azioni concrete.

Perciò, se abbiamo tutto chiaro… Diamoci da fare!

Ecco come avere dei figli “positivi”!

Quante volte ci stupiamo di fronte a certi atteggiamenti rinunciatari e timorosi dei nostri figli?

Vorremmo vederli sicuri di sé, grintosi, aperti a cogliere le piccole o grandi sfide della vita e invece li vediamo impauriti e spaventati all’idea di un insuccesso a tal punto da non provarci nemmeno.

“Tanto lo so, mamma, la verifica andrà male come la volta scorsa!”.
“A che serve tutto questo studio? Tanto poi va male!”.

Abbiamo ascoltato parecchie frasi simili a queste e magari l’istinto ci ha spinti a replicare:
“Ma io non so dove prendi tutta questa negatività!”.

Eh! Bella osservazione!

Ma cosa possiamo fare per avere figli “positivi”?

Intanto chiariamo che “positivi” non significa guardare alla realtà in modo distorto, con gli occhiali rosa, in modo irrealistico.

Positivi significa “ottimisti”, ovvero capaci di guardare il bicchiere mezzo pieno: fiduciosi nelle proprie capacità e sulla buona riuscita delle proprie azioni, oltre che di buona compagnia e socievoli.

Praticamente, figli capaci di pensare positivo, di vedere il lato buono della vita. Figli che guardano alla vita con il desiderio di vivere esperienze positive.

No, non stiamo parlando di extraterrestri!

Avere figli così è possibile! Ma molto dipende da noi.

Se siamo di quegli adulti che si alzano al mattino cupi e già si lamentano per la giornata che avranno davanti, con tutte le rogne di cui occuparsi al lavoro e tutti gli impegni a cui far fronte, be’ non saremo un gran bell’esempio! Non è questione di fingere, ma di non alimentare la negatività.

Lamentarsi è un’abitudine e, come tale, può essere modificata.
Se siamo genitori ottimisti, anche i nostri figli lo saranno!
Il primo “lavoro”, quindi, è quello su noi stessi.

Facciamo piccoli cambiamenti:

  • Al mattino evitiamo di lamentarci perché dobbiamo andare al lavoro.
    Se è possibile, facciamo colazione insieme a loro (magari alzandoci un pochino prima del solito) e parliamo di qualcosa di positivo (come, ad esempio, di chissà quali nuove cose interessanti impareranno a scuola).
  • Alla sera, a cena, possiamo dedicarci a “il racconto della giornata”, ovvero il racconto di ciò che abbiamo vissuto, con la regola di trovare “3 cose positive” da evidenziare.
  • Prima di dormire, possiamo leggere loro una bella storia a lieto fine.
    (Ci sono libri per bambine, ad esempio, che raccolgono storie di “femmine” che sono riuscite a realizzare i propri sogni, diventando scienziate, artiste, musiciste… Tutte storie positive, quindi).

Buone pratiche che fanno bene a loro, ma anche a noi!

Un’altra cosa importante, ma che comporta una certa attenzione da parte nostra, è legata al linguaggio e ai messaggi che invia al cervello.

Dobbiamo sforzarci di far caso alle frasi che i nostri figli sono soliti usare.

Se dicono spesso: “Non ce la faccio” (es. “Mi aiuti, mamma? Non ce la faccio”), “Ma io non sono capace!”, “Non ci riesco”, “Non sono bravo a calcio” o “In matematica sono negato!”, “In scienze non capisco niente!”, dobbiamo intervenire e modificare la loro frase in:

  • “Posso farcela!”
  • “Ci provo” o “Voglio provare a …”.
  • “Sono bravo in…”.

Questo li aiuterà a essere più positivi e a non generalizzare in negativo.

Se, ad esempio, dicono che il loro disegno fa schifo, facciamo notare loro che non è così: troviamo gli elementi positivi, senza ingannarli o illuderli. Ad esempio: “Del tuo disegno mi piace molto questo elemento” (troviamo un dettaglio che apprezziamo).

E per quanto riguarda noi, stiamo attenti alle parole che diciamo loro, soprattutto quando siamo irritati:

“Sbagli sempre!”, “Possibile che non ne fai una giusta?”, “Non cambi mai!” sono generalizzazioni che fanno danni.
Meglio essere più precisi e dire:
“In questa cosa hai sbagliato, ma puoi migliorare” oppure
– “Stavolta non è andata tanto bene, proviamo in un’altra maniera!”.

In questo modo, i bambini capiscono quello che non va bene, ma il nostro intervento è costruttivo, non distruttivo.

Quindi non si tratta di dire a nostro figlio delle falsità, ma di incoraggiarlo a “parlarsi” in modo diverso, perché i messaggi che manderà al suo cervello gli permetteranno di affrontare in modo positivo le difficoltà e gli ostacoli della vita.

Allora insegniamogli a farsi i complimenti per ciò che riesce a fare:
– “Sono stato bravo”,
– “Sono capace di…”,
– “Mi voglio bene”.

Deve rendersi conto di avere le capacità per fare di tutto, ma sapere che per farlo bisogna impegnarsi, concentrarsi e mirare all’obiettivo.

Aiutiamolo allora e stimoliamolo con queste frasi, soprattutto quando dubita di sé:

  • “Ho fiducia in te e nelle tue capacità”,
  • “ti voglio bene e ce la farai”,
  • “lo sai fare come gli altri, devi aver fiducia”
  • “la vita è fatta anche di insuccessi, quindi se questa volta è andata così la prossima volta andrà meglio”,
  • “si è capaci anche se qualche volta si sbaglia”.

Per riuscire a guardare alla vita con positività, nostro figlio deve imparare a dare il giusto peso agli eventi ed è tutta questione di “allenamento”.

Guardare alla realtà senza negativizzare tutto richiede continuità: va fatto tutti i giorni.
Magari iniziando dal buon umore, che trasmette serenità, speranza e allenta le tensioni.

Cerchiamo dunque di “sorridere” più spesso: i nostri figli (e non solo) ne godranno tutti i benefici.

Non illudiamoci però: i nostri figli non diventeranno positivi “per magia” e da un giorno con l’altro!

Dobbiamo educarli noi a questo atteggiamento: noi, che siamo le persone più influenti nella loro vita.

E a chi si lamenta, dicendo: “Anche questo devo imparare?!?”, rispondo che fare il genitore è un duro lavoro da svolgere tutti i giorni e, come tutti i lavori, prevede un continuo apprendimento se si desidera migliorare.

Il potere che ne deriva è enorme: influenzare l’intero futuro dei propri figli.

 

 

 

Ragazzi, se volete essere felici… imparate a usare l’umorismo!

La sfida per un giorno di questa settimana porta il nome di “umorismo”.

Vediamo se ne siete dotati!

Rispondete “sì o no” a queste domande:
1) Quando un amico ha un umore nero, faccio di tutto per distrarlo con battute;
2) Mi piace portare allegria nella giornata degli altri con un sorriso;
3) Molte persone dicono che con me si divertono;
4) In certe situazioni trovo qualcosa per cui ridere con gli altri;
5) Riesco a ridere dei miei difetti.

Più “sì” avete risposto e più il vostro grado di umorismo è alto.

Ma che diavolo è l’umorismo?!

E’ la capacità di sorridere (persino ridere) con gli altri e di far sorridere gli altri della vita, di ciò che succede in essa.

Se avete il dono dell’umorismo, siete davvero fortunati!
E certamente è ancora più fortunato chi vi sta accanto, perché voi riuscirete a mostrargli il lato più divertente e comico di ogni evento.

Non significa che continuate a ridere come sciocchi per qualsiasi cosa, ma che riuscite a cogliere il lato buffo della vita.

Se, ad esempio, sapete ridere dei vostri difetti, scherzandoci sopra, prendendoli con leggerezza e non come un peso enorme, siete dotati di umorismo e gli altri vi apprezzeranno per questo.

Chi sceglie di prendere in giro se stesso e non gli altri, è tutt’altro che superficiale, anzi!
E’ sicuramente una persona riflessiva e profonda, con splendide qualità!

Quindi allenate l’umorismo ogni giorno, perché è un modo efficace di combattere lo stress delle verifiche e delle interrogazioni.

E come facciamo a coltivarlo?

All’inizio vi ho parlato di una… sfida.

Si tratta di scegliere un giorno e – sin dal mattino appena svegli – cercare di affrontare tutto ciò che vi sembra pesante con una battuta.

In mensa il piatto del giorno è disgustoso per voi? Fate una battuta e rideteci sopra.
Servirà a non arrabbiarvi e vi permetterà di “passarci sopra”.

Ricordate che l’umorismo è un’arma di difesa potentissima! Perciò… usatela!

 

*Articolo scritto da Laura Gazzola e pubblicato sulla Pagina dei Ragazzi del quotidiano “La Provincia di Como” il 6 novembre 2018.

Ragazzi, ecco cinque mosse per imparare a… perdonare!

La parola d’ordine di questa settimana è “perdonare” e sappiamo quanto sia difficile, soprattutto se ci siamo sentiti traditi o feriti.

Il fatto è che molte volte vorremmo perdonare, ma come fare per zittire quella vocina che abbiamo dentro e che ci suggerisce di vendicarci o di odiare chi ci ha fatto male?

Non siamo mica dei santi! Loro sì che sono capaci di perdonare e di vivere sereni!

Ma… se volete “imparare” a perdonare, esiste un metodo, che non funziona velocemente come uno schiocco di dita, ma che vi può portare a vivere meglio, con più ottimismo e felicità.

Non ci credete?

Provate a seguire questi 5 passi:

1) Ricordate ciò che vi è successo, senza pensare che il colpevole sia un “mostro”.

Non arrabbiatevi di nuovo: respirate lentamente e profondamente.
Poi provate a rivedere la scena nella vostra mente: fate una descrizione “oggettiva”, senza aggiungere altro.

2) Provate a mettervi nei panni di chi vi ha fatto soffrire: immaginate di avere di fronte quella persona, mentre vi spiega perché si è comportata così male.

Quale storia vi racconterebbe?
Inventatela!

3) Ora il passo più difficile: “regalate” il vostro perdono.

Per riuscirci, pensate a qualcosa che avete combinato tempo fa e al perdono che avete ricevuto.
Smettetela di provare odio e ostilità: mettetevi al di sopra del male e della vendetta. Solo così potrete perdonare davvero.

4) E’ il momento di scrivere una lettera di perdono a chi vi ha fatto soffrire.

Mettere su carta il perdono aiuta a renderlo vero.
Se proprio non ce la fate a mandare una lettera, scrivetela sul vostro diario e conservatela.
Sarà sufficiente.

5) Sarà impossibile “cancellare” dalla vostra mente ciò che è accaduto, ma “ricordarlo” non significa “non riuscire a perdonare”. Ricorderete ciò che è successo, ma non proverete più il desiderio di vendetta, la rabbia, il dolore.

Rileggete la lettera che avete scritto: vi aiuterà a tornare sereni.

E ricordate che “perdonare” non è un atto di debolezza, ma un modo per vivere sereni!

 

* Articolo scritto da Laura Gazzola e pubblicato sulla Pagina dei Ragazzi del quotidiano “La Provincia di Como” il 9 ottobre 2018.

Niente sensi di colpa se decidi di abbandonare a metà un libro!

Vi sarà certamente capitato da adulti di leggere un romanzo che non è stato all’altezza delle vostre aspettative!
E quanta fatica per terminarlo, vero?

Già, perché solo l’idea di lasciarlo a metà… beh, ci avrebbe fatti sentire in colpa!
Si sa che è una cosa da non fare!

Ce l’hanno inculcata sin da bambini: un libro iniziato, va terminato!

Ma chi lo dice?

Forse dovremmo riflettere sul rapporto tra costi e benefici.
Forse dovremmo domandarci perché leggiamo un libro.

Nella maggior parte dei casi è per svagarci, distrarci, evadere.
Chi ama leggere lo sa: un libro ci porta lontano e, quando lo chiudiamo, siamo di nuovo a casa.

Ma se quel libro non ci piace? Se lo troviamo noioso, poco interessante? Se ci intristisce?

I libri possono piacerci o meno anche a seconda del momento in cui li leggiamo.
Un romanzo che in un momento triste della nostra vita ci risulta illeggibile, in un momento più sereno può esserci d’aiuto per riflettere. Quindi nulla va perduto!

Ecco: gli esperti parlano di “sunk cost fallacy”, che tradotto significa “costo irrecuperabile”.

Questo è il vero motivo per il quale non abbiamo il coraggio di lasciare a metà un romanzo.

Ve lo dimostro con un esempio classico:
se andiamo al ristorante, ci sforziamo di finire il pasto anche quando siamo ormai sazi.
Se invece siamo a casa nostra, la pietanza viene messa da parte per essere consumata in un altro momento.

Il motivo è scontato: abbiamo pagato e quindi lasciare il cibo nel piatto ci sembra un vero spreco.

Con un libro succede qualcosa di simile:

oltre ad averlo acquistato, abbiamo investito pure tempo ed energie nella lettura.

E non è cosa da poco, visto che il tempo a nostra disposizione è sempre scarso e le energie che abbiamo vengono spesso consumate del tutto sul posto di lavoro.

Gli esperti, per questo, ci invitano a cambiare la prospettiva:
la vera perdita di tempo ed energie è continuare a leggere un libro che non ci appaga.

Se ci pensate bene, hanno ragione!

Dal punto di vista dello “spreco”, sforzarci di terminare un libro che troviamo pesante ha dei costi molto alti.
Molto più alti che non interromperlo, per leggerlo magari in un altro momento della nostra vita, oppure regalarlo a chi potrà apprezzarlo o donarlo a qualche biblioteca, affinché possa essere letto da chi è davvero interessato.

Perciò… basta sensi di colpa!

Se un libro proprio non ci piace… abbandoniamolo!

Sii l’adulto che avresti voluto accanto quando eri piccolo.

Quante volte non ci riconosciamo o non sappiamo più chi vogliamo essere?

La Vita cambia le persone e capita di ritrovarsi adulti e di non piacersi o di non sapere che tipo di genitore essere.

La naturale tendenza dovrebbe essere quella di guardarsi dentro e “migliorarsi”, ma ci sono molte persone che in realtà, nel tempo, fanno emergere solo il peggio di sé o perché sono scontente e si sentono vittime del sistema o perché sono state deluse da qualcuno o da se stesse. Altre si sono incattivite per i torti subiti e altre ancora si sono indurite per non soffrire più.

Ecco, allora, che una frase come “Sii l’adulto che avresti voluto accanto quando eri piccolo” può fare da guida.

Si tratta di ripensare seriamente a “che cosa ci è davvero mancato” durante la nostra infanzia e adolescenza.

E credo che a nessuno verrebbero in mente per prima cosa gli abiti griffati e gli oggetti costosi…
Anche se, magari, “quel motorino” che desideravamo tanto e non abbiamo mai avuto… ci brucia un po’, perché era un modo per essere indipendenti e sentirci grandi.
E probabilmente non penseremmo neanche alla totale libertà, senza regole né controlli da parte di un adulto che ci concedesse di tutto.

Se ci riflettete bene, vi accorgerete che i pensieri si spostano altrove.

Di che adulto avremmo avuto bisogno?

Di uno che ci regalasse cose che si comprano coi soldi oppure di uno che ci regalasse il suo tempo, che giocasse insieme a noi, che ci incoraggiasse a fare il nostro meglio senza criticarci né giudicarci?

Magari ci sarebbe piaciuto avere a fianco un adulto solare, capace di farci ridere al momento giusto, di farci sentire amati e apprezzati per ciò che eravamo…

Un adulto capace di gentilezza, seppure fermo sull’educazione e le regole
Un adulto in grado di ascoltarci in silenzio, ma anche di dialogare con noi

Un adulto che, al momento giusto, ci abbracciasse e ci dicesse: “Sono fiero del ragazzo che sei”

Ecco, ciascuno di noi sa che tipo di adulto avrebbe voluto accanto e questa “immagine” può davvero aiutarci a disegnare il ritratto di chi vogliamo essere nei confronti degli altri e in particolare dei figli (indipendentemente da ciò che abbiamo passato nella vita).

Un modo semplice per toglierci tutti i dubbi e renderci più determinati e perseveranti nel diventare “l’adulto” di cui avremmo avuto bisogno.
Un adulto che venga ricordato per ciò che di buono è riuscito a trasmettere e a condividere, per la gioia che è riuscito a suscitare e per la serenità che è stato capace di regalare.

Volete aiutare un figlio in crisi? Affidatevi ad un bravo professionista.

In questo periodo sto prestando particolare attenzione alle frasi che ascolto a proposito di “chiedere aiuto a professionisti” che lavorano in ambito psicologico, educativo e formativo, come psicologi, pedagogisti, Life e Teen Coach, Counselor.

Vi riporto alcune affermazioni che ho ascoltato di recente:
“Questi ragazzi! Altro che andare dallo psicologo! Mandali a lavorare! E poi vedi che gli passa tutto!” (un commercialista);
“Sono una brava madre e mio figlio non ha niente che non va… E’ solo che la scuola non gli piace!” (la madre di un adolescente);
“Se mia figlia è in crisi, la aiuto io ad uscirne! Le parlo, le sto vicina e tutto si supera!” (la madre di una quattordicenne).

Forse un fondo di verità c’è in tutte queste esclamazioni, ma… siamo proprio così sicuri di saper intervenire bene su tutto?

Io parto sempre da un principio di umiltà: se il problema che mi trovo di fronte non rientra nelle mie competenze professionali, mi affido agli addetti ai lavori.

Non mi sento “incapace” se non riesco a trovare le soluzioni a tutti i problemi che possono affliggere i miei familiari in alcuni momenti dalla vita…
Certo!, vorrei avere la bacchetta magica per vederli sempre felici, ma non è possibile e quindi mi affido a “chi ha studiato per risolvere quel problema”.

Non so come mai ci sia ancora tutta questa reticenza nel chiedere aiuto a figure che si occupano di “farci stare bene” a livello psicologico.

E come mai siamo subito pronti a consigliare e passare il nominativo e l’indirizzo di un bravo ginecologo (?!), mentre tacciamo quello di un Life Coach, di uno psicologo, di un pedagogista.

Dov’è il problema?

Io credo risieda nella nostra paura di essere etichettati e di apparire fragili, inadeguati, diversi.
Oppure nel desiderio di tenere “segreta” quella marcia in più conquistata grazie al sostegno di quel tipo di professionista.

Curioso, vero?
Mi viene in mente anche un altro esempio: se mio figlio ha un pessimo rendimento scolastico, non mi faccio problemi a dire che lo mando a ripetizioni da più professori. Anzi!, agli occhi degli altri sento di essere un genitore attento e presente, che ha a cuore il futuro del figlio.
Ma se mio figlio dovesse andare da un teen coach per apprendere tecniche e strategie utili alla sua vita (e quindi anche alla scuola)… beh, questo è meglio non farlo sapere.

E perché mai?

Come ho detto chiaramente durante l’intervista fatta a Radio Lombardia (e visibile nel mio sito), i genitori “illuminati” – come li chiamo io – sono quelli che capiscono subito di non avere gli strumenti per aiutare un figlio ad uscire da un periodo di crisi ed è per questo che si rivolgono ad un professionista. Amano così tanto il figlio da non voler perdere tempo. Mettono da parte l’orgoglio e usano l’intelligenza.

Eh, sì, perché quando un figlio studia, si impegna, ma durante le verifiche va in crisi e non capisce più niente… si risolve ben poco con la comprensione, i discorsi incoraggianti e gli abbracci consolatori (anche se fanno sempre piacere!).

Perciò non sentitevi a disagio nel riconoscere che avete bisogno di un appoggio: anche vostro figlio ne ha bisogno.
Cercate il professionista più adatto a risolvere il problema di vostro figlio e ricordate: nessun professionista potrà mai sostituirsi a voi genitori.
Semmai vi affiancherà e vi chiederà collaborazione perché vostro figlio possa tornare ad essere sereno e a guardare al futuro con fiducia e motivazione.

Coppie felici: meglio esprimere o tacere i propri sentimenti?

Paura, gioia, speranza, delusione, desiderio, solitudine…

I sentimenti che possiamo provare ogni giorno sono tanti: a volte arricchiscono la nostra vita, altre volte la rendono insopportabile.

Il fatto è che non possiamo “controllare” i sentimenti e quest’ultimi fanno ciò che vogliono: in un periodo sono estremamente intensi e in un altro vanno pian piano scomparendo.

Se noi parliamo di un certo sentimento (come la rabbia o la felicità), ne prendiamo la distanza;  se ci lasciamo travolgere, esso acquisterà forza.

E noi sappiamo bene che per far funzionare una RELAZIONE DI COPPIA, bisogna saper cogliere e ascoltare i sentimenti.

“ C’è differenza tra parlare di sentimenti ed esprimere i sentimenti ” dice un noto psicologo che se ne occupa da moltissimi anni (A. Vansteenwegen).

E ha proprio ragione, perché i sentimenti sono dei segnali molto forti in una relazione: ci dicono qual è il suo stato di salute e, se sono negativi, ci fanno capire che qualcosa va modificato.

Non dobbiamo avere “paura” di esprimere ciò che sentiamo, perché la paura non dà mai buoni consigli!

La questione , però, è: dobbiamo dirci “tutto” ciò che sentiamo oppure dobbiamo scegliere quali sentimenti esprimere e quali tacere?

In generale, è bene “non accumulare” troppi sentimenti negativi, perché poi arriva la goccia che fa traboccare il vaso e la nostra reazione sembra esagerata e fuori luogo.

Se sono irritata con il mio partner per colpa dei lavori domestici, è meglio dirglielo, ma senza arrivare alle liti. Di solito ci si accorda su “chi fa cosa” e quindi si può decidere di rivedere gli accordi.

In generale, poi, sappiamo bene che cosa rasserena il partner e che cosa lo fa imbestialire, perciò sarebbe meglio “prevenire che curare”.

Quindi, se conosco bene il mio partner e so che lo irrita tantissimo il ritardo perenne, eviterò di farlo aspettare.

Al contrario, se so che adora andare al cinema o a cena in un determinato ristorante, farò in modo di organizzare un’uscita che lo renderà felice.

Ma… è vero che bisogna dirsi tutto? Proprio tutto, per far funzionare la coppia?

Allora, reprimere i sentimenti fa male: porta persino a somatizzazioni!

Ma vivere con una persona che dà libero sfogo a tutti i suoi sentimenti… è un incubo!

Pensate a chi ha continui sbalzi d’umore, che spara a raffica frasi cattive oppure offensive solo perché “le sente in quel momento”… Viverci diventa davvero impossibile!

In questo caso, quindi, meglio non dirsi tutto ciò che proviamo, se non altro per il bene della nostra coppia.

Ma allora quando è meglio condividere i sentimenti che proviamo?

Vansteenwegen ci suggerisce di farlo quando abbiamo qualcosa che ci sta a cuore: se siamo dispiaciuti o delusi o temiamo per qualcosa.

In questi casi, non bisogna “fuggire”, ma esprimere “cosa c’è che non va”. In questo modo il sentimento che proviamo diventerà meno intenso e passerà prima.

Certo, se si tratta di un sentimento negativo di breve durata, possiamo anche non comunicarlo, perché passerà da sé. Ma se è costante, allora dobbiamo dirlo al nostro partner.

Molte persone invece nascondono i propri sentimenti negativi, li reprimono, li negano. Provano a far finta che non ci siano! Esprimerli, per loro, significherebbe mettere in pericolo la loro relazione.

Ma così facendo, si allontanano dal partner e si isolano.

Meglio trovare il momento adatto e dire al partner: “Quando ti comporti così… vado su tutte le furie!” oppure “Mi sento delusa…”, ecc.

In questo modo il partner dovrebbe rendersi conto che non si tratta di uno sfogo, ma di una cosa importante, anche se non possiamo pretendere che lui/lei “senta” ciò che sentiamo noi con la medesima intensità.

Eh, sì! Ci vuole una gran pazienza per far funzionare le cose! E anche una buona dose di autocontrollo!

E per aumentare i sentimenti positivi, bisogna creare dei… “ riti ”, come il pranzo della domenica, una passeggiata con tutta la famiglia (che unisce), un film guardato insieme, i lavori di manutenzione della casa condivisi o… un’uscita serale per stare un po’ soli.

Arriva un bebé e la coppia “scoppia”. Ecco come evitarlo!

Da fidanzati, tutto meraviglioso, perciò decidete di rafforzare il legame con il matrimonio o la convivenza.
E anche lì procede tutto bene, perciò… perché non pensare ad un figlio che consolidi il profondo legame già esistente?
Un “cucciolo” da amare e crescere insieme, felici come nelle fiabe del “e vissero per sempre felici e contenti”.

Peccato però che, dopo la nascita di un figlio, molte coppie… scoppino!

E come mai?
Quali sono i problemi che sorgono nella coppia?
E come fare a superarli?

Conoscerli può aiutare a prevenirli (se un figlio non c’è ancora) oppure ad identificarli e a risolverli (sempre che nella coppia ci sia dialogo e disponibilità all’ascolto).

Vediamo come:

1) Il carico dei lavori domestici.

Magari prima di diventare mamma la casa non era il tuo primo pensiero e rimandare le pulizie non era una tragedia. Ma ora che c’è il tuo bebè, la casa deve essere pulita e in ordine: i lavori domestici non si possono rimandare.
Il problema è che ti ritrovi “sola”: lui va al lavoro e tu resti a casa, ma fai tutt’altro che riposare.
E quando arriva la sera e lui rientra, tu sei distrutta e a lui sembra impossibile: avresti bisogno che lui facesse la sua parte, ma se non glielo chiedi “lui non ci arriva”. In fondo, tu sei quella che resta a casa! E così iniziano i malumori, i battibecchi.

Meglio intervenire subito e accordarti con il tuo partner su “chi fa cosa”, ovvero chi pulirà i fornelli la sera, chi il bagno, chi farà la spesa ecc.
Meglio definire anche i tempi, cioè stabilire insieme “quando” andranno fatte queste cose, in modo da non ritrovarti a dover sempre chiedere o ricordare.

2) Differenze negli stili educativi.

Magari prima che nascesse vostro figlio sembravate d’accordo su come crescerlo ed educarlo, ma ora che è lì davanti a voi, ecco sorgere le incomprensioni su tutto: l’ora della nanna, gli alimenti da introdurre pian piano, i comportamenti da considerare giusti o meno.
Di solito i neogenitori tendono a riprodurre il modello con cui sono stati cresciuti e non è detto che sia lo stesso. Perciò nascono i primi contrasti e le prime discussioni.
Ricordiamoci sempre, però, che trovare uno stile educativo da condividere è fondamentale per la crescita di un figlio.

Meglio quindi confrontarsi e adottare una linea comune.
Potreste anche valutare di affidarvi ad un esperto (ostetrica, pedagogista, family coach, ecc.) che vi guidi nei primi mesi e vi permetta di sentirvi più tranquilli, eliminando tutti i vostri dubbi.

3) Mancanza di sonno e di sesso.

Quando si diventa genitori, il sonno è un lusso! E questo purtroppo porta stanchezza, nervosismo e tensione sia nella coppia sia nei confronti del bimbo.
In più, il tempo per il sesso scarseggia.
Accade anche che la donna possa sentirsi stanca e poco attraente o che tema che il sesso sia doloroso. Capita anche che la neomamma si concentri completamente sul figlio e questo faccia sentire escluso e solo il partner.

Perciò, perché non parlarne? Perché non confessare apertamente i propri timori o le proprie difficoltà? Insieme potete trovare tutte le soluzioni!

4) Meno tempo per la coppia.

Se prima vi piaceva andare al cinema e a cena fuori insieme, ora che siete genitori non potete più farlo, a meno che non lasciate il bebè a nonni o babysitter.
Questo significa che i vostri stili di vita cambiano radicalmente: aumentano le uscite a tre (con vostro figlio) e si riducono o scompaiono quelle a due, di coppia.Fate però in modo di non trascurare del tutto questo tempo, perché altrimenti create una distanza fra voi.

Ogni tanto concedetevi una serata fuori, facendo ciò che amavate fare insieme.
Questo vi farà sentire di nuovo “coppia”.
Programmatela in anticipo, in modo da organizzare il tutto per bene e fare in modo che niente impedisca o rovini la vostra uscita.

5) Problemi finanziari.

Anche se lavorate entrambi e avete due stipendi, avere un figlio comporta delle spese che prima non c’erano, come le visite dal pediatra, i pannolini, i vestiti, ecc.
Questo può procurare preoccupazione e quindi tensione nella coppia.

L’ideale è stendere un piano delle spese, che comprenda ciò che è necessario, ma anche quello che può regalarvi serenità (es. un corso di yoga o di arrampicata che vi permetta di scaricarvi e di sentirvi appagati).
Valutate quindi a tavolino le spese che potete “tagliare” (abbonamenti, cene fuori, cellulari ultimo modello, ecc.) e di tanto in tanto fatevi un regalo.

Ecco perché sono diventata una Life Coach…

Sono diventata una Life Coach
perché tutte le volte che in vita mia sono riuscita
a raggiungere un nuovo obiettivo
mi sono sentita estremamente felice.

Sono diventata una Life Coach
perché tutte le volte che ho portato gli altri al loro traguardo
ho sentito di essere felice per loro.

Sono diventata una Life Coach
perché ho sempre fatto tutto da sola,
ma mi sarebbe piaciuto ogni tanto
avere un aiuto.

Sono diventata una Life Coach
perché non voglio
che nessuno resti solo e
per questo rinunci al suo sogno.

Credo sinceramente
che solo chi abbia sperimentato
la gioia e il dolore;
solo chi abbia vissuto sulla propria pelle
la perdita (di qualcuno o qualcosa),
la delusione, la rabbia, la frustrazione,
ma anche
il riscatto e la soddisfazione;
solo chi sia caduto e si sia fatto male,
ma abbia imparato a rialzarsi ogni volta;
solo chi abbia già conosciuto molto
di quel mistero che
chiamiamo Vita,
possa davvero diventare LIFE Coach.

Perché le teorie, i metodi, le strategie,
non bastano da soli: rischiano di essere
belle parole studiate nei libri,
ma soltanto parole.

E le parole, per quanto intense,
se non sono supportate dalle esperienze,
possono dare emozioni,
ma non possono “toccare” nel profondo.

Solo se hai vissuto certi sentimenti,
riesci a “sentirli” davvero nelle parole degli altri.
A coglierli nella persona che affianchi in un percorso.

E questo, secondo me,
è ciò che deve saper fare
una brava Life Coach:
ascoltare con “testa, cuore e pelle”,
padroneggiare perfettamente il metodo,
aggiornarsi continuamente
per affiancare al meglio chiunque le chiederà aiuto.