Se vuoi vivere meglio, non aspettarti nulla dagli altri.

Vi è mai capitato di rimanere male, di soffrire o di restare deluse da qualcuno?

E magari di pensare:

“Io al suo posto non mi sarei mai comportata così!”, “Io non sarei mai stata così ingrata/cattiva/superficiale!”.

Che poi, se si tratta di una collega o di un conoscente, la delusione svanisce piuttosto velocemente. Ma se si tratta di un familiare… Magari di un fratello, una sorella, un genitore, un figlio o il partner… allora la sofferenza e la delusione si amplificano.

Possiamo cancellare ciò che ci ha fatto stare male? Probabilmente no, ma possiamo imparare sia a farcene una ragione sia a cambiare il nostro approccio, in modo da non cadere più nello stesso errore.

Per vivere meglio, dobbiamo evitare di cadere nella trappola delle “aspettative”.

In poche parole significa che:

“Non posso misurare il mondo in base a ciò che io farei in una data situazione, perché io non sono il metro del mondo”.

Se ci pensate, niente di più vero!

Noi siamo “unici” perché abbiamo esperienze, pensieri ed emozioni che sono soltanto nostri.

Nessuno sarà mai come noi, né avrà la nostra sensibilità o generosità o capacità di amare.

Gli altri non sono noi.

Non hanno avuto la nostra stessa educazione, gli stessi valori, le stesse esperienze.

Non hanno le nostre emozioni e non pensano nel nostro stesso modo.
Non sono noi.

Perciò… come possiamo pretendere che ragionino o “sentano” come noi?

Certo che può capitarci di arrabbiarci con qualcuno che si comporta con noi come mai noi faremmo con lui! E’ normale, ma questo non ci fa bene, non ci aiuta a vivere meglio.

Sapete perché?

Perché l’altro non è e non potrà mai essere una nostra fotocopia.

Le persone (persino i familiari) sono diverse da noi e come tali risponderanno a loro modo e non necessariamente per cattiveria o per mancanza di rispetto o altro.

Perciò…

non sprechiamo tempo ed energie nel chiederci il perché non si siano comportate come noi “ci aspettavamo”.

Se vogliamo una risposta, facciamo loro una domanda precisa: “Perché mi hai trattata così?” o “Perché mi hai risposto in quel modo?”.

Se poi spieghiamo loro come ci hanno fatti sentire, magari potremmo scoprire che non si sono neanche accorti di averci fatto male e che non ne avevano alcuna intenzione.

In conclusione, se vogliamo vivere più serenamente, dobbiamo accettare di essere tutti diversi e considerare che il nostro modo di pensare e agire non è necessariamente il migliore.

Ricordiamoci:

“Noi non siamo il metro del mondo, perciò non aspettiamoci dagli altri ciò che noi faremmo al loro posto!”.

Nessuno deve mancarvi di rispetto!

Oggi vi parlo di “rispetto” e di “farsi rispettare”, perché in un solo giorno mi è capitato di assistere a due episodi che mi hanno lasciata senza parole.

Nel primo episodio ero in un negozio in attesa del mio turno. La coppia di mezza età, che il commesso stava servendo, si stava confrontando sull’acquisto. Ad un certo punto il marito alza la voce e, con tono autoritario, strilla alla moglie: “Stai zitta, va’! Che hai già parlato troppo!”.

Nel secondo episodio ero al parco. Una sedicenne cammina col suo cane al guinzaglio e parla al telefono in modo seccato: “Mammaaa, ti ho detto di no!” esclama. E poi urla: “Porca p….!, Caxxo! Ti ho detto di no!”.

Questi due casi dimostrano che:
1. L’uomo e la sedicenne hanno mancato di rispetto.
2. La moglie e la madre hanno permesso che mancassero loro di rispetto.

Magari è capitato anche a voi che qualcuno vi mancasse di rispetto. E come avete reagito?

Siete rimasti in silenzio, pensando: “Non è possibile che stia capitando proprio a me!” oppure avete immediatamente reagito?

Alcuni non reagiscono perché non hanno ben chiaro il concetto di rispetto.

Sappiate, però, che qualunque sia il vostro ruolo (di genitori, coniugi, lavoratori), il rispetto è qualcosa che dovete pretendere. E’ anche una questione di dignità.

Significa essere riconosciuti, considerati per ciò che siete e per il valore che avete.

Vuol dire non permettere a nessuno di offendervi con le parole, ma anche con il linguaggio non verbale fatto di espressioni facciali, alzate di spalle, smorfie, sbuffi…

Se desiderate il rispetto, dovete per primi rispettarvi, cioè amarvi, stimarvi, sentirvi importanti.
Al contrario, se pensate di essere scontati, sostituibili, inadeguati e manchevoli, allora gli altri non vi rispetteranno mai, perché i primi a mancarvi di rispetto sarete proprio voi.

Chi vi rispetta vi tratta con educazione.

Se, invece, si comporta con voi in modo offensivo e indelicato, vuol dire che gli avete “permesso” di oltrepassare il limite.

Perciò, il primo gesto importante da compiere verso voi stessi è “definire il vostro limite”, cioè il confine che gli altri non devono superare.

Una cosa utile, che mi sento di consigliarvi, è fermarvi a riflettere e poi scrivere su un foglio quali sono i “confini” che gli altri dovranno rispettare per non mancarvi di rispetto (ad esempio: “non permetterò a nessuno di dirmi parolacce, nemmeno per scherzo”). E poi aggiungete cosa risponderete nel caso qualcuno oltrepassasse i vostri confini (es. “risponderò: oh, ma come ti permetti!” oppure, simpaticamente “oh!, ma cosa sono queste confidenze?!”, ecc.).

Se a mancarvi di rispetto sono i figli, significa che non avete fatto loro comprendere che gli adulti siete voi e che loro sono tenuti ad osservare le vostre indicazioni/regole. Perciò, ristabilite i ruoli (in un prossimo articolo vi spiegherò come).

Se a mancarvi di rispetto è il partner, parlate chiaramente: fate presente che ha oltrepassato il limite. Non c’è bisogno di litigare, ma dovete avere ben chiaro che cosa non volete accettare e comunicarlo con calma e fermezza.

Prossimamente approfondiremo il tema del “rispetto”. Intanto vi lascio con questa frase:

“Se non si è convinti del proprio valore, non ci si farà mai rispettare: senza autostima non si va lontani. Dignità e autostima vanno di pari passo.”    Paolo Crepet

Ma quanto ci fanno bene le chat?

Che invenzione, Whatsapp!
Scrivi a chi vuoi, quando vuoi, nel Paese che vuoi e non paghi nulla!
Davvero fantastico!
Puoi creare gruppi e condividere parole, ma anche video, foto, articoli…
Insomma, quanto è meraviglioso il mondo delle chat!

Però mi viene qualche dubbio: magari se lo condivido con voi, scoprirò di non essere l’unica ad averlo.
Vediamo un po’…

Grazie a Whatsapp i messaggi ci arrivano a tutte le ore.
Fra l’altro, siamo sempre connessi, persino quando “per privacy” facciamo in modo che gli altri non vedano se abbiamo letto il loro messaggio oppure no.
Eh, già, perché loro non lo vedono, ma noi sappiamo bene che è arrivato e… come resistere alla tentazione di scoprire che cosa dice?
Così, che si tratti di lavoro o meno, il nostro cervello non stacca mai.

Avete fatto caso, ad esempio, che restare a lungo sul cellulare la sera, prima di andare a dormire, ci guasta la qualità del sonno?

Che dire poi degli sfoghi scaricati sui tasti del cellulare, senza nemmeno riflettere sul contenuto e sulle conseguenze?
Ho in mente il caso di una persona adulta che, in un momento di crisi totale, sentendosi sola, ha mandato un messaggio Whatsapp ad un amico, dipingendo una situazione drammatica in cui pareva voler porre fine alla propria vita. L’amico, che aveva letto tardi il messaggio, si era angosciato e affrettato a telefonarle… scoprendo che la persona in questione stava benissimo e che il messaggio “era stato solo uno sfogo del momento”.

Benedetto Whatsapp!

E che dire dei gruppi?
E’ così bello e comodo poter condividere con un clic i propri pensieri
Già, peccato che poi questi gruppi diventino il ricettacolo di pettegolezzi, cattiverie, prese in giro, alle spalle di chi non è membro del gruppo.
Oh, all’inizio può anche essere divertente leggere certe battute sul tizio che non sopportiamo: in fondo resta tutto nel gruppo!
Vero, ma se ci avete fatto caso, alimenta sentimenti negativi nei confronti di chi viene preso di mira (generalmente un collega, un superiore).

Sì, ok, ma è anche uno strumento utile Whatsapp!

Certamente, basti pensare a quando viene usato per la scuola
Avete presente le chat dei genitori della classe?
Quelle dove si comincia a parlare di compiti e si finisce per “sparlare” dell’insegnante, dei suoi metodi, del suo carattere (che nemmeno si conosce)?

Vabbè, ma mica sono tutte così le chat!

Mmmm… quelle dei genitori, mi risulta di sì.
Quantomeno sono zeppe di commenti poco costruttivi e quindi poco utili.

E cosa dire di chi usa Whatsapp per ritagliarsi una piccola evasione dalla quotidianità (dalla moglie o dal marito) e poi, però, la sera deve correre a cancellare la conversazione nel timore che il coniuge la legga?

Pensate ancora che sia fantastico Whatsapp?
Che porti valore e serenità nella vostra vita?

Be’, durante i viaggi è comodissimo: vogliamo mettere l’utilità di mandare messaggi da oltreoceano senza dover pagare uno sproposito?
E che dire delle foto che possiamo inviare, regalando gioia a chi è a casa e magari in pensiero per noi.

Whatsapp non è né fantastico né terribile.
E’ l’uso che ne facciamo a evidenziare la sua reale utilità o meno.

Siamo noi a dover scegliere “come” usarlo e quanto usarlo.
Tocca a noi capire che, usare una chat per demolire una persona, anche se “solo” all’interno del gruppo, non va bene: non ci fa bene!
Così come buttare il tempo a scrivere per un’ora, quando una telefonata sarebbe più appropriata e gradita.

Tocca a noi porre un limite alle comunicazioni professionali via chat quando siamo ormai a casa, perché il nostro cervello – per stare bene – ha bisogno di staccare, di pensare ad altro (e non alla chat dei colleghi).

Perciò, perché non ci prendiamo uno spicchio di tempo e riflettiamo sul motivo per cui “dipendiamo” così tanto da questa chat?

Magari scopriremo che – in fondo in fondo – soffriamo un po’ di solitudine, o che il rapporto con il nostro partner è un po’ vuoto, o ancora che siamo un po’ tirchi e non vogliamo telefonare, o ancora che siamo un po’ pettegoli… Scherzo!, ma non troppo.

Proviamo sul serio a chiederci: “In che modo – d’ora in poi – desidero usare Whatsapp?”.

Per cambiare in meglio la nostra vita, basta prendere una decisione e iniziare ad agire

Con i figli… “cogli l’attimo” e non te ne pentirai!

Due settimane fa ero sul lago: leggevo un bel libro, ammirando di tanto in tanto il paesaggio.
Proprio a pochi metri da me, ad un certo punto, vedo passare una vecchia barca di legno: un uomo anziano, con la pelle abbronzata e i capelli bianchi mossi dal vento, remava stando in piedi e facendo una certa fatica.

La barca a remi procedeva lentamente: a prua, un bambino di otto-nove anni stava seduto e rilassato, contemplando il lago.

“Vieni qui, ora! Ti insegno come fare” gli dice il vecchio.
“Ma nonno, sono troppo piccolo!” si affretta a rispondere il bambino.
“Non è vero, io ho imparato alla tua età” commenta tranquillo il nonno.
“Ma perché DEVO impararlo adesso?” chiede il nipote.
“Perché io non so quanto riuscirò ancora a remare e tu devi saperlo fare” spiega l’uomo.
“Sì, nonno, ma PROPRIO ADESSO?” si lamenta il ragazzino.
“Certo! Perché GIA’ mi sento un po’ stanco…” risponde il nonno con tono affettuoso.

Volete sapere com’è andata a finire?

Ho visto il bambino mettersi ai remi, guidato dalle mani e dalle indicazioni del nonno, e remare… Remare fino a far scivolare veloce sull’acqua la barchetta.

Volete sapere che espressione aveva sul viso il bambino?

Il suo sguardo, inizialmente concentrato e serio, ha poi mostrato tutta la soddisfazione e la gioia di esserci riuscito.

Non è una storiella inventata, questa.
E’ una storia vera, di quelle che chiunque può “vedere” se interessato e incuriosito dal comportamento umano.

Sapete perché ve l’ho raccontata?
Perché… CARPE DIEM, come direbbe il bravo professore del film “L’attimo fuggente”.

Dobbiamo saper cogliere le occasioni per insegnare qualcosa ai nostri figli, nipoti, perfino al partner.

Non si tratta di “mettersi in cattedra” e impartire una lezione. E chi la ascolterebbe?!

Nelle molteplici occasioni dobbiamo saper scegliere il momento migliore, quello che si presta meglio a darci una mano a trasmettere un valore, una tradizione, un ricordo, qualcosa di pratico (come remare).

Non facciamo l’errore di rimandare… “Tanto poi c’è tempo!”.
Il tempo non c’è!
Ecco perché “carpe diem”: cogli l’attimo!

Quel nonno è stato eccezionale a cogliere l’attimo.
Se avesse rimandato al giorno dopo, le condizioni non sarebbero state le stesse. E magari il nipote non l’avrebbe assecondato.
Ma le sue parole, il tono, il significato implicito del “non sarò qui vicino a te per sempre”… hanno colpito il nipote, che ha deciso di provare.

Quel nonno ha dato una lezione a tutti noi, perché in una frase ha racchiuso un valido insegnamento:

con i bambini e coi ragazzi bisogna spesso inventarsi una “buona scusa” per far sì di essere ascoltati.
Importante è anche dare un tempo, “ora” e non “la prossima volta”.

Dobbiamo cogliere tutta la bellezza di saper coinvolgere i figli, facendoli sentire utili, persino necessari in alcuni momenti.
E loro ci seguiranno, senza protestare, perché si sentiranno importanti, valorizzati.
Come ad esempio una bimba di 5 anni che ho visto accompagnare, tenendola per mano, la nonna che si reggeva col bastone…

Quanta tenerezza, quanta disponibilità e amore in quel gesto.

Ma i bambini, i ragazzi sono così: capaci di “dare” tantissimo e imparare tantissimo.

Sta a noi “cogliere l’attimo” e domandarci:

“Quanto è importante per me trasmettere a mio figlio ciò che so, ciò che amo, ciò in cui credo?”…

e il gioco è fatto!

Smettiamo di essere delle “isole” e guadagniamo in serenità!

“E’ tutto uno schifo!”, “Va tutto male!”, “Non funziona niente!”, “E’ colpa della società!”…
Quante volte ascoltiamo o produciamo continui mugugni fini a se stessi?

La verità è che siamo diventati delle isole: ciascuno per sé e nessuno per tutti!

Abbiamo frainteso il suggerimento di “pensare un po’ a noi stessi” e l’abbiamo trasformato in “prima io e poi gli altri”.
Questo – a sua volta – si è tradotto in mancanza di attenzione, di ascolto, di rispetto per gli altri.

La saggezza insita nel concetto “la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri” è diventata “prima di tutto viene la mia libertà – ovvero tutto ciò che voglio fare – e gli altri si arrangino”.

In tutta sincerità, mi fa male scrivere questa riflessione, che è frutto di anni di osservazione di questa “nuova” umanità, perché io non mi sento e non sono così.
Tuttavia, si sa, bisogna necessariamente generalizzare, anche se questa esigenza mi fa venire l’orticaria!

Per cambiare le cose, però, questa pseudo-filosofia non funziona.
Basta guardare come ci siamo ridotti…: imbronciati, cupi, infelici.

Non è mettendosi sempre ed esclusivamente al centro di tutto che si diventa felici: esistono anche gli altri.

Già: gli altri! Quelli per i quali si sprecano le critiche, i giudizi, le cattiverie.
E di solito si tratta di critiche “distruttive” e non costruttive.
E’ sufficiente leggere i commenti sui social per rendersene conto.
L’intento è demolire l’altro: la sua (buona) immagine, la sua (seria) professionalità…

Si distrugge l’altro per emergere e, la cosa peggiore è che lo si fa davanti a chi sta crescendo, ai figli, che così imparano immediatamente a fare lo stesso.

“Ma cosa ci possiamo fare se il mondo va così?”.

Ehhh, troppo facile risolvere la questione in questo modo, con un “me ne lavo le mani”, mi arrendo, non è affar mio!

Le cose si possono cambiare. Noi possiamo cambiare.

“Di impossibile non c’è niente, se stiamo uniti” dice il personaggio di un romanzo di Andrea Vitali. Ed è così!

Iniziamo dal nostro vivere in famiglia:

  • facciamo sentire ai figli che papà e mamma sono “uniti”, che si vogliono bene e si trattano con rispetto. Eliminiamo quindi le liti e le discussioni davanti ai figli, soprattutto le critiche offensive e le esclamazioni con parolacce.
  • Alimentiamo in casa la bellezza di “essere uniti” in famiglia: l’importanza di andare d’accordo, di trovare soluzioni che accontentino un po’ tutti, che regalino serenità.
  • Valorizziamo i componenti della famiglia: tutti e non solo chi ha più affinità con noi.
  • Usiamo un linguaggio positivo, che incoraggi ad affrontare i problemi, le sfide e stimoli ad agire (piuttosto che a criticare e basta).
  • Insegniamo ai figli la ricchezza di aiutare chi è in difficoltà (magari dando una mano ad un compagno che viene un po’ isolato per la sua timidezza).
  • Diamo il buon esempio come adulti, trattando con gentilezza le altre persone e dedicando loro un po’ della nostra attenzione.

Se ci impegneremo a mettere in pratica quotidianamente questi semplici comportamenti, allora sì che cambieremo le cose.

Allora sì che smetteremo di essere e di crescere delle “isole”.

E col passare del tempo, questa “unione” balzerà agli occhi degli altri e sarà d’esempio a qualcuno che deciderà di fare lo stesso.

E l’input sarà inarrestabile… così come i suoi meravigliosi risultati,

perché smettere di essere delle aride “isole” può solo regalarci gioia e serenità.

Vuoi comunicare il tuo disagio? Costruisci la frase perfetta!

Se chi si relaziona con noi è puntuale, attento e disponibile… tutto va bene: i nostri bisogni vengono ascoltati senza neanche esprimerli.
In questo caso è facile comunicare con l’altro, perché c’è perfetta armonia.

Ma cosa succede se chi deve collaborare con noi non ci ascolta?

Sicuramente ci sentiamo incompresi, arrabbiati, e viviamo un penoso malessere.
Sbraitare non serve a nulla, anzi! A volte fa più danno! E allora…

Come comunicare in modo positivo il nostro disappunto o disagio?

Come riuscire a stare calmi e a non rimuginarci sopra per il resto della giornata?
Come essere soddisfatti per aver fatto presente ciò che ci ha irritati?

Un modo pratico ed efficace c’è!

Mettiamo da parte l’impulsività e impariamo a “costruire” la frase da comunicare, mettendo insieme queste tre parti:

  • Quando tu fai così… (spiegare ciò che ci ha dato fastidio)
  • Io mi sento… (esprimere l’emozione provata)
  • Perché… (spiegare il motivo, la causa per cui ci siamo irritati)

Facciamo degli esempi:

La cena è pronta e l’avete appena servita in tavola. Chiamate vostro figlio, che è in stanza, e lui arriva con 10/15 minuti di ritardo. Al posto di fargli la solita ramanzina, siate molto fermi e brevi:

  • Quando tu arrivi in ritardo, dopo che ti ho chiamato più volte
  • io mi innervosisco
  • perché il cibo si fredda e soprattutto non mangiamo insieme nell’unico pasto che possiamo condividere.

Oppure:

La stanza di vostro figlio è terribilmente in disordine: vestiti sul letto, sulla sedia e per terra, zaino rovesciato e buttato in un angolo, libri e quaderni ovunque, scarpe spaiate in giro per la camera. Gli chiedete di riordinarla prima di sera, ma quando è l’ora di cena, vi accorgete che lui non l’ha fatto.

Al posto di iniettare i vostri occhi di sangue e attaccarlo con le peggiori frasi… respirate e limitatevi a:

  • Quando tu non riordini la tua stanza, dopo che te l’ho chiesto
  • io mi infurio e mi deprimo
  • perché mi fai sentire come una cameriera e per me è una mancanza di rispetto.

E se le scuse di vostro figlio vi sembrano poco sincere o credibili, aggiungete:

  • Quando mi rispondi così
  • mi innervosisco ancora di più
  • perché per me la sincerità è importante.

Ecco! Se strutturerete la frase in questo modo,

potrete spiegare con poche parole il vostro disagio e le vostre emozioni in modo che vengano comprese.

Non dico che sarà semplice, ma è una valida alternativa ai lunghi e inutili discorsi che poi nessuno ascolta, sia che si tratti di un figlio sia che si tratti di un collega, del partner, ecc.

Provateci e fatemi sapere!

“Le voglio bene, ma mi fa stare male!”… Come ne esco?

Durante una sessione di Life Coaching, una giovane donna – che mi sta raccontando di un’amica a lei cara – all’improvviso si ferma e con aria triste dice: “Le voglio bene, ma mi fa stare male!”.

Chissà a quanti di noi è capitato di pensare la stessa cosa nei confronti di un’amica, di un familiare, del partner.

Provare affetto per chi ci fa sentire scontate… come fossimo un accessorio, una seconda scelta.

Domandarci tutte le volte: “Chissà!, magari non ha fatto apposta a cancellare quel nostro impegno!” o “Ma perché non mi ha invitato?” o “Possibile che cambi sempre il programma che abbiamo fatto?”.

Non è questione di confidenza o legame di parentela. E’ che vogliamo bene a chi pensa sempre prima a sé e poi – molto poi – a noi.

Il fatto è che , quando ne diventiamo consapevoli, siamo di fronte a un dilemma: andare avanti così o prendere le distanze?

Rammento una persona a cui ero molto legata che faceva tutto a suo piacimento ed io dovevo sempre adattarmi. Volendole molto bene, la assecondavo, anzi, giustificavo il suo comportamento scorretto pensando che non facesse apposta! Era così! Era il suo carattere.

Però nel frattempo soffrivo…

Mi faceva stare male quando lei cancellava gli impegni che aveva preso con me; quando lei si organizzava a suo piacimento ed ero io a dovermi adeguare; quando lei mi rispondeva in modo sgarbato e io stavo zitta per evitare lo scontro.

La verità è che avevo paura di perderla, perché avevamo condiviso tanto in gioventù.

Com’è finita?

Dopo parecchi anni ho deciso di tagliare: uscire con lei e tornare a casa con qualche ferita era all’ordine del giorno e proprio non lo sopportavo più.

Non eravamo più due ragazzine e crescere significa ascoltarsi, guardarsi dentro e scegliere per il proprio bene.

Non è stato facile: pensavo che quel legame non si sarebbe mai spezzato…

Credevo che ci volessimo bene.

Ma l’affetto dev’essere reciproco e deve esprimersi sotto forma di rispetto, di comprensione, di disponibilità verso l’altra persona.

Quando una dà e l’altra prende e basta… è il momento di mettere in dubbio l’affetto dell’altra.

Se stiamo male, vuol dire che non siamo felici e che quella persona probabilmente non è poi così positiva per noi.

Perciò, se come la mia cliente vi ritrovate in una situazione simile, provate a rispondere a queste semplici domande:

  • Quanto ancora siete disposti a soffrire?
  • Mettendo sulla bilancia l’affetto che provate e quanto l’altra persona vi fa stare male, che cosa pesa di più?
  • Vi sta bene soffrire per colpa di un’altra persona?
  • Da zero a dieci, quanto vi fa soffrire? E quanto vi sentite ricambiati nell’affetto?

Se a tutte queste domande avete risposto in modo sincero, la verità può essere:

  • Che non avete altre persone con cui sostituire chi vi fa soffrire, per cui non siete disposti a prendere le distanze. Oppure,
  • che sia arrivato il momento di svoltare.

E quando dico “svoltare” non significa per forza “tagliare”.

Basterebbe che iniziaste a dire ciò che pensate, senza paura né dubbi.

Immaginate di trovarvi di fronte all’ennesimo cambiamento di programma da parte sua e di farglielo notare, con calma, ma in modo deciso e fermo: “Scusa, ma a me non sta bene, per questo e quest’altro motivo”.

Qualcuno penserà: “Eh, ma così per forza ci si scontra!”.

Non è detto! Anzi!

Se l’altra persona vi considera importanti e vi vuole bene quanto voi gliene volete, sarà disposta a venirvi incontro. Se invece si impunterà, farà muro contro muro… Be’ avrete la prova che cercate!

Se vuoi bene a tuo figlio, non giustificarlo sempre.

Un ragazzo di vent’anni mi confida di aver assunto cocaina per “allontanarsi dai suoi problemi”:
il padre lo giustifica perché “è solo, non ha fratelli e io e sua madre abbiamo appena divorziato”.
Un adolescente rischia di perdere l’anno scolastico a causa delle assenze accumulate: i genitori si lamentano, ma lo giustificano, dicendo che “non si sentiva mai pronto all’interrogazione o alle verifiche”.
Un undicenne al parco alza le mani su un ragazzino che l’ha pesantemente insultato. Entrambe le madri giustificano i figli, l’una dicendo che è stata una reazione naturale, visto che è stato provocato, e l’altra minimizza la pesante offesa lanciata dal proprio figlio, perché “stava scherzando”.
Ad un corso di formazione, una donna si lamenta perché i due figli adulti non se ne vogliono andare di casa e se ne stanno a bighellonare tutto il giorno, ma quando la trainer le indica cosa fare per tagliare il cordone ombelicale, lei risponde: “Be’, ma come posso fare così… Come fanno a mantenersi? Non possono mica lavorare otto ore al giorno per guadagnare una miseria!”.

Di esempi del genere potrei farvene a centinaia…

Ma il succo di tutto è che molti ragazzi vengono sempre giustificati dai genitori e magari pure dai nonni e da certi insegnanti o allenatori.

Viene quindi spontaneo domandarsi:
“Ma giustificare sempre e comunque i figli, va bene?”.

Certamente no!

Anzi, è pure pericoloso per la loro crescita, perché non capiranno mai che cos’è un limite né impareranno che esistono dei confini. E che dire della morale e delle regole?

I figli hanno bisogno di avere dei “paletti” entro i quali muoversi serenamente.

Devono conoscere le conseguenze delle loro azioni e spetta agli adulti metterli di fronte a ciò.

Chi giustifica sempre un figlio… non gli vuole bene!

Sceglie il quieto vivere, ovvero una posizione di comodo, che regala un’apparente serenità in famiglia, ma non fa crescere nessuno.

I genitori hanno il dovere di responsabilizzare i figli e questo è possibile se spiegano loro che cosa fare e che cosa no.

Non si tratta di colpevolizzare i figli per come “sono”, ma per ciò che hanno fatto di sbagliato.

Non bisogna quindi dire: “Tu sei un disastro”, ma “Tu ti sei comportato male, per questo e quest’altro motivo”.
Diventa quindi necessario spiegare ai figli in che cosa hanno sbagliato e dimostrare loro che è possibile rimediare, ma soltanto dopo aver compreso i propri errori.

Sono i genitori al timone e tocca a loro definire i limiti.

Non possono farlo i figli, perché non sono adulti e hanno bisogno di essere guidati con mano sicura, giusta e ferma.

I genitori devono sì sforzarsi di “comprendere” perché un figlio si è comportato male, ma questo non vuol dire giustificarlo. Per essere autorevoli devono imparare a dire “no” ai figli, senza paure o dubbi.

Devono aiutare i figli a riflettere sugli errori commessi e sulle conseguenze di certe azioni e farlo con calma, senza gridare, né accusare.
I figli, d’altro canto, devono capire di aver sbagliato (non di essere sbagliati) ed essere pronti a non ripetere l’errore.

Ecco come avere dei figli “positivi”!

Quante volte ci stupiamo di fronte a certi atteggiamenti rinunciatari e timorosi dei nostri figli?

Vorremmo vederli sicuri di sé, grintosi, aperti a cogliere le piccole o grandi sfide della vita e invece li vediamo impauriti e spaventati all’idea di un insuccesso a tal punto da non provarci nemmeno.

“Tanto lo so, mamma, la verifica andrà male come la volta scorsa!”.
“A che serve tutto questo studio? Tanto poi va male!”.

Abbiamo ascoltato parecchie frasi simili a queste e magari l’istinto ci ha spinti a replicare:
“Ma io non so dove prendi tutta questa negatività!”.

Eh! Bella osservazione!

Ma cosa possiamo fare per avere figli “positivi”?

Intanto chiariamo che “positivi” non significa guardare alla realtà in modo distorto, con gli occhiali rosa, in modo irrealistico.

Positivi significa “ottimisti”, ovvero capaci di guardare il bicchiere mezzo pieno: fiduciosi nelle proprie capacità e sulla buona riuscita delle proprie azioni, oltre che di buona compagnia e socievoli.

Praticamente, figli capaci di pensare positivo, di vedere il lato buono della vita. Figli che guardano alla vita con il desiderio di vivere esperienze positive.

No, non stiamo parlando di extraterrestri!

Avere figli così è possibile! Ma molto dipende da noi.

Se siamo di quegli adulti che si alzano al mattino cupi e già si lamentano per la giornata che avranno davanti, con tutte le rogne di cui occuparsi al lavoro e tutti gli impegni a cui far fronte, be’ non saremo un gran bell’esempio! Non è questione di fingere, ma di non alimentare la negatività.

Lamentarsi è un’abitudine e, come tale, può essere modificata.
Se siamo genitori ottimisti, anche i nostri figli lo saranno!
Il primo “lavoro”, quindi, è quello su noi stessi.

Facciamo piccoli cambiamenti:

  • Al mattino evitiamo di lamentarci perché dobbiamo andare al lavoro.
    Se è possibile, facciamo colazione insieme a loro (magari alzandoci un pochino prima del solito) e parliamo di qualcosa di positivo (come, ad esempio, di chissà quali nuove cose interessanti impareranno a scuola).
  • Alla sera, a cena, possiamo dedicarci a “il racconto della giornata”, ovvero il racconto di ciò che abbiamo vissuto, con la regola di trovare “3 cose positive” da evidenziare.
  • Prima di dormire, possiamo leggere loro una bella storia a lieto fine.
    (Ci sono libri per bambine, ad esempio, che raccolgono storie di “femmine” che sono riuscite a realizzare i propri sogni, diventando scienziate, artiste, musiciste… Tutte storie positive, quindi).

Buone pratiche che fanno bene a loro, ma anche a noi!

Un’altra cosa importante, ma che comporta una certa attenzione da parte nostra, è legata al linguaggio e ai messaggi che invia al cervello.

Dobbiamo sforzarci di far caso alle frasi che i nostri figli sono soliti usare.

Se dicono spesso: “Non ce la faccio” (es. “Mi aiuti, mamma? Non ce la faccio”), “Ma io non sono capace!”, “Non ci riesco”, “Non sono bravo a calcio” o “In matematica sono negato!”, “In scienze non capisco niente!”, dobbiamo intervenire e modificare la loro frase in:

  • “Posso farcela!”
  • “Ci provo” o “Voglio provare a …”.
  • “Sono bravo in…”.

Questo li aiuterà a essere più positivi e a non generalizzare in negativo.

Se, ad esempio, dicono che il loro disegno fa schifo, facciamo notare loro che non è così: troviamo gli elementi positivi, senza ingannarli o illuderli. Ad esempio: “Del tuo disegno mi piace molto questo elemento” (troviamo un dettaglio che apprezziamo).

E per quanto riguarda noi, stiamo attenti alle parole che diciamo loro, soprattutto quando siamo irritati:

“Sbagli sempre!”, “Possibile che non ne fai una giusta?”, “Non cambi mai!” sono generalizzazioni che fanno danni.
Meglio essere più precisi e dire:
“In questa cosa hai sbagliato, ma puoi migliorare” oppure
– “Stavolta non è andata tanto bene, proviamo in un’altra maniera!”.

In questo modo, i bambini capiscono quello che non va bene, ma il nostro intervento è costruttivo, non distruttivo.

Quindi non si tratta di dire a nostro figlio delle falsità, ma di incoraggiarlo a “parlarsi” in modo diverso, perché i messaggi che manderà al suo cervello gli permetteranno di affrontare in modo positivo le difficoltà e gli ostacoli della vita.

Allora insegniamogli a farsi i complimenti per ciò che riesce a fare:
– “Sono stato bravo”,
– “Sono capace di…”,
– “Mi voglio bene”.

Deve rendersi conto di avere le capacità per fare di tutto, ma sapere che per farlo bisogna impegnarsi, concentrarsi e mirare all’obiettivo.

Aiutiamolo allora e stimoliamolo con queste frasi, soprattutto quando dubita di sé:

  • “Ho fiducia in te e nelle tue capacità”,
  • “ti voglio bene e ce la farai”,
  • “lo sai fare come gli altri, devi aver fiducia”
  • “la vita è fatta anche di insuccessi, quindi se questa volta è andata così la prossima volta andrà meglio”,
  • “si è capaci anche se qualche volta si sbaglia”.

Per riuscire a guardare alla vita con positività, nostro figlio deve imparare a dare il giusto peso agli eventi ed è tutta questione di “allenamento”.

Guardare alla realtà senza negativizzare tutto richiede continuità: va fatto tutti i giorni.
Magari iniziando dal buon umore, che trasmette serenità, speranza e allenta le tensioni.

Cerchiamo dunque di “sorridere” più spesso: i nostri figli (e non solo) ne godranno tutti i benefici.

Non illudiamoci però: i nostri figli non diventeranno positivi “per magia” e da un giorno con l’altro!

Dobbiamo educarli noi a questo atteggiamento: noi, che siamo le persone più influenti nella loro vita.

E a chi si lamenta, dicendo: “Anche questo devo imparare?!?”, rispondo che fare il genitore è un duro lavoro da svolgere tutti i giorni e, come tutti i lavori, prevede un continuo apprendimento se si desidera migliorare.

Il potere che ne deriva è enorme: influenzare l’intero futuro dei propri figli.

 

 

 

Colloqui scolastici e… madri “fuse” coi figli.

Avete presente i colloqui scolastici?
Sono quei momenti durante i quali un genitore si trova faccia a faccia con chi si occupa di suo figlio e al contempo ha il dovere di “valutarlo” per comportamento e rendimento.
Niente di peggio, vero?

Le madri sono quelle a cui tocca quasi sempre questa incombenza: chi ci va in preda all’ansia, chi preoccupata, chi arresa… Poche sono quelle veramente serene.

Come docente e Coach, immagino sempre quali possano essere gli stati d’animo di una madre e cerco di cogliere il suo legame profondo col figlio, attraverso il linguaggio e le espressioni verbali e non verbali che usa.

Ci sono le mamme ansiose, con le mani sudate, che parlano poco oppure molto velocemente: chiedono rassicurazioni e consigli.
Poi ci sono quelle preoccupate, che arrivano con la fronte già corrucciata e tengono spesso le mani chiuse a pugno l’una dentro l’altra: si rilassano solo dopo aver sentito che va tutto bene.

Ce n’è un “tipo”, però, molto particolare: quella che appare sicura di sé, che tende il braccio per salutare e ha una stretta di mano forte. Quella che sembra avere tutte le risposte e quindi non accetta alcuna osservazione sul figlio.
Se il giudizio sul comportamento non è come si aspetta lei,… apriti cielo!

Tutte le volte che mi capita di incontrare donne del genere, penso a quale grosso problema abbiano con il loro essere madri e a quanta inconsapevolezza si trascineranno per tutta la vita, danneggiando pure il figlio.

Sono mamme che continuano a vivere in uno stato di “fusione” col figlio.
E la cosa è grave, perché la fusione esiste, ma per brevissimo tempo dopo la nascita. Non oltre.

Se, come madre, non riesco a vedere e a vivere mio figlio come un essere separato da me

allora, tutto ciò che gli altri diranno di lui, sarà una critica che mi colpirà sul piano personale, come fosse mossa a me direttamente.

Questo non ha nulla a che vedere col sentirsi dispiaciute per il proprio figlio.

Queste madri, sentendosi un tutt’uno col figlio, si sentono giudicate in prima persona e quindi in dovere di difendersi:

“Guardi che io sono una brava madre, eh! Non una di quelle che abbandona a se stesso il proprio figlio!”. Frase tipica, pronunciata spesso all’inizio del colloquio, senza che il docente abbia detto nulla a riguardo.

Ma questo figlio è un essere a sé, con emozioni, sentimenti e comportamenti diversi dalla madre, ed è sano che sia così.

Una madre, quindi, dovrebbe fare il grande passo di accettare questa inevitabile separazione e di accoglierla come un momento di crescita per sé e per il figlio.

Significa fare “il proprio dovere di mamma”, senza pretendere che tutto vada come si vuole o in modo perfetto.

Significa mettersi in discussione, con lo scopo di migliorarsi e non di “fustigarsi”.

Vuol dire accettare se stesse, ma senza cadere nel “come sono brava, non potrei fare di meglio”, perché

lo scopo è porsi delle domande e diventare consapevoli di sé, in modo da vivere più serenamente la propria genitorialità.