Qualche giorno fa, ascoltando un intervento di Paolo Crepet sull’educazione dei figli, ho fatto caso che usava il termine “reciprocità” come faccio anch’io, da anni, parlando coi genitori.
In poche parole, diceva che – se un figlio adolescente non vuole impegnarsi in nulla – il genitore non deve fare nulla, cioè niente paghetta né playstation, né cellulare… Niente.
Il concetto espresso era “se tu non fai niente per te stesso, io non faccio nulla per te”.
Interessante, vero?
A me è piaciuta la precisazione “… non fai nulla PER TE”, perché significa che il “nulla” del genitore è un atto di amore disinteressato e non una punizione o un ricatto.
Se un figlio non si dà daffare, il genitore NON deve continuare a “dare” (soldi, regali…) né “fare” ciò che tocca al figlio.
Dovrebbe essere così anche nella vita quotidiana.
Al lavoro, perché dovremmo svolgere quello che è compito di altri?
Se un collega non fa niente di ciò che deve, perché dovremmo aiutarlo?
Se una persona è sgarbata, maleducata con noi, perché dovremmo continuare a essere gentili e disponibili con lei?
Non è un invito all’egoismo né alla maleducazione.
Si tratta di “reciprocità”.
Continuando a concedere il meglio a chi non fa altrettanto con noi, pensiamo di fargli del bene?
Di aiutarlo a migliorare? Perché se non pretendiamo la “reciprocità”, l’altro penserà di essere al centro dell’universo e che tutto gli sia dovuto, anche se non lo merita.
“Reciprocità” invece significa venirsi incontro, dialogare, comprendersi, rispettarsi e volersi bene.
Le relazioni umane “sane” si fondano sulla “reciprocità”.
Perciò, se l’altra persona NON risponde alle nostre domande, ci regala silenzi, assenze prolungate, dubbi, attese infinite… vuol dire che siamo soli: l’altro non c’è. Non è un rapporto il nostro.
Se siamo sempre noi a “dare” senza mai “ricevere”… non è un rapporto salutare.
Se l’altro non collabora e facciamo tutto noi… che relazione è?
Quindi, valutiamo bene se i nostri rapporti di amicizia, familiari, di lavoro hanno “reciprocità”: guardiamoli senza filtri né giustificazioni.
Chiediamoci: “Ricevo dall’altro ciò che io do?”,
“Mi sta bene dare e basta?”, “Per quanto ancora lo accetterò?”.
E poi decidiamo se e come cambiare il nostro atteggiamento per vivere più sereni e in pace con noi stessi.