Giorni fa passeggiavo in un parco con una insegnante di scuola materna, la quale mi raccontava le sue fatiche. Ad un certo punto mi confida: “Sai, riesco sempre a dare buoni consigli ai genitori dei miei bambini… Me ne rendo conto perché risolvo spesso i loro problemi educativi e familiari”.
Poi, con il tono sconfitto, osserva: “Ma allora, perché quando i problemi riguardano me e la mia vita non sono capace di trovare una soluzione?”.
E con un filo di voce e l’aria seria: “Ma a te, Laura, come Coach, abituata a sorreggere gli altri e a renderli felici, non capita mai di non riuscire ad aiutare te stessa e per questo starci male?“.
“Sentivo” perfettamente il suo disagio, perché era stato oggetto di tante mie riflessioni.
Anch’io, appena diventata Coach, nei momenti di frustrazione, dubbio, debolezza, mi ero chiesta: “Come posso aiutare gli altri, se non riesco a essere sempre al massimo?”.
Poi mi ero ricordata di quando il mio insegnante di Coaching, Luca Stanchieri, aveva chiarito che il Coach non è colui che ha trovato magicamente la chiave della felicità e quindi è senza problemi.
Così le ho risposto: “Vedi, come professionista DEVO essere in grado di portare al risultato e alla serenità il mio cliente, ma come essere umano possono capitare momenti in cui sono triste o abbattuta. Ciò che conta è la professionalità“.
“Se tu, ad esempio, andassi a fare terapia di coppia da una brava psicoterapeuta, ti importerebbe se lei fosse divorziata?”.
“E se fossi malata e ti rivolgessi ad un medico molto preparato, avresti meno fiducia scoprendo che è malato di cancro?”.
Così, per rassicurarla, ho concluso: “Nessuno di noi è immune da malattie e dispiaceri.
E nessuno ha perfettamente sotto controllo la vita.
Ma se sei una professionista, questo non deve influire sul tuo lavoro.
E questa è la spiegazione per cui sei tanto brava con gli altri e invece, quando sei coinvolta come essere umano, perdi lucidità e ti sembra di non trovare più la soluzione al tuo problema”.